23 Luglio 2017, 05:50
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PALERMO – L’ultima parola spettava, sempre e comunque, a Ninetta Bagarella. Che tutti chiamano “la signora” in segno di rispetto nei confronti della donna e del marito, Totò Riina. E “quando c’è la signora che gli dice prenditi la valigia e vattene” nessuno può battere ciglio.
Il sequestro di beni deciso nei giorni scorsi svela che la famiglia Riina per decenni ha gestito un feudo – fra Ficuzza e Corleone- nonostante le terre fossero di proprietà della Curia di Monreale. Ora lo Stato ha reciso l’ingerenza del capo dei capi nell’”Azienda agricola santuario Maria Santissima del Rosario di Tagliavia”.
Un’azienda che ha lavorato sulle terre del santuario, incassato risorse pubbliche e assunto lavoratori “fantasma” probabilmente per ottenere finanziamenti che complessivamente hanno superato il milione di euro. Tutto, sempre e comunque, sotto la direzione della famiglia Riina. Da qui la decisione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che, sulla base delle indagini della Procura di e dei carabinieri del Ros, ha stabilito che per mettere le cose a posto nei prossimi sei mesi l’azienda sarà gestita da un amministratore giudiziario.
Erano stati i militari del Gruppo Monreale a intercettare lo scontro fra Rosario Lo Bue e Antonino Di Marco sulla gestione del pascolo. Lo Bue, classe 1953, è un nome noto alle cronache giudiziarie. Nei giorni del blitz Perseo – dicembre 2008 – veniva indicato come il nuovo capo mandamento di Corleone. Da quel mega processo uscì assolto perché le intercettazioni che lo riguardavano furono dichiarate inutilizzabili. Il 3 gennaio 2012 Di Marco raccontava a Nicola Parrino che Leoluca Lo Bue, figlio di Rosario, e Vincenzo Di Marco, fratello di Antonino, erano arrivati ai ferri corti per la gestione del pascolo sui terreni.
Anche Vincenzo Di Marco non è un nome nuovo alle cronache. Fu arrestato all’indomani della cattura di Totò Riina, di cui favoriva la latitanza, e ora si scopre che aveva ricevuto il benestare dal padrino corleonese con il quale aveva condiviso la detenzione al carcere Ucciardone di Palermo, tra il 1993 e il 1997. Scarcerato nel 1998 sarebbe uscito con un mandato preciso. E informò il fratello Antonino: “… qua disturbo non ce n’è… digli a tuo figlio che domani mattina se ne va là, diglielo che sono io, finito”.
Detto, fatto. Francesco Di Marco è subentrato al padre, andato in pensione, nella gestione dei terreni. È stato assunto dall’azienda agricola nel 2001. Da allora è stato l’unico dipendente. Le cose sono andate diversamente negli anni precedenti. Tra il 1987 e il 1991 alla banca dato dell’Inps risultano 69 braccianti in servizio, ma le schede di lavoro appartengono in 64 casi a persone inesistenti. Lavoratori fantasma, insomma.
Lo sapevano tutti che i terreni erano in mano ai Riina. Già Balduccio Di Maggio, il pentito che fece arrestare il capo dei capi, aveva riferito che Vincenzo Di Marco era “il bracciante delle terre di Riina”. Antonino Di Marco, quando scoppiò la lite con i Lo Bue, ne aveva parlato con Giuseppe Salvatore, il figlio del padrino corleonese che dopo avere scontato la pena si è trasferito a Padova. Lo informò che avrebbe lasciato le terre solo su ordine di Salvuccio, della madre Ninetta, o di Giovanni Grizzaffi, il nipote di Totò Riina, scarcerato nei giorni scorsi dopo 25 anni trascorsi in cella. Nessun altro poteva prendere decisioni. Solo “la signora” Ninetta poteva dare l’ok sulle forniture di foraggio.
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23 Luglio 2017, 05:50