Fiera, vaccini e lacrime: "Non doveva finire così"

Fiera, vaccini e lacrime: “Non doveva finire così”

Gli ultimi sviluppi. La chiusura. L'atmosfera nell'hub vaccinale.

Interno Fiera, struttura commissariale (finché c’è). Il dottore Renato Costa, commissario per l’emergenza Covid nell’area metropolitana di Palermo, ha la stessa espressione di Roberto Baggio, un attimo dopo avere sbagliato il rigore decisivo nella finale mondiale. Accanto, i suoi ragazzi. C’è Giusi, una delle sue collaboratrici più strette – che, come gli altri, ha presidiato tutto, senza mai risparmiarsi – colta mentre compulsa nervosamente il telefonino, a caccia di sviluppi. Rosario, il medico, non sa dove guardare. Il piccolo ufficio, la cabina di comando del quartier generale, somiglia al coro domestico dei parenti per un defunto recente. Il caro estinto è appunto la Fiera. Le ultime notizie sono trancianti: nessuna proroga in grande stile. Il personale sanitario avrà la grazia dei tempi supplementari. Gli altri? Non si sa. Più facile no che sì. L’hub non sarà più tale, i servizi erogati verranno assorbiti dall’esistente.

“Ho parlato con l’assessore Volo – mormora Costa – mi ha detto che non si poteva fare altrimenti. Ha chiamato anche l’ex assessore, Ruggero Razza. Un gesto di attenzione che apprezziamo”. “Ma come? – quasi grida qualcuno – il diciannove dicembre non si discute a Roma per i fondi? Com’è che non si poteva fare altrimenti?”. Entra un ragazzo con la barba. “Commissario, voglio saperlo da te. E’ finita?”. La risposta è un cenno affermativo. Si siede e qualche lacrima comincia a scorrere. Troppo patetica, forse, la scena di un ragazzone barbuto che piange in pubblico? Chissà. Possiamo capirli i ragazzi della Fiera. Hanno lottato contro il Covid a mani nude, quando il vaccino era un sogno lontano. Hanno creato una squadra. Credevano di potere essere ancora utili, conservando un posto di lavoro. Molti di loro, adesso, si sentono traditi, messi in un angolo e dimenticati.

Ora si aspetta. Si attende che le comunicazioni interne e le indiscrezioni giornalistiche si trasformino in carta bollata, in procedure di dismissione. Perché una cosa appare sicura. A dispetto dei tamponi, abbondantemente erogati, a dispetto dei vaccini, in giro per la provincia, a dispetto di contagi e ricoveri Covid in ascesa, con l’aggravante dell’influenza, siamo arrivati al dunque. Si chiude. E si chiude perché la nuova parola d’ordine ‘è normalità’. “Sai quanto guadagno io? – dice Giusi -. Io lavoro sempre e qui guadagno poco più di novecento euro al mese”. “Io nemmeno settecento”, le fa eco Rosario.

Il commissario Costa ha sistemato il suo saluto grafico nei display del padiglione sedici. Si legge: “Grazie, insieme abbiamo scritto una bellissima pagina nella storia di questa città”. La memoria corre alle file per i vaccini, quando sembrava un miraggio abbandonare la fase tragica di una pandemia. All’imbecillità dei no vax più incalliti. A quelli che sono morti. A quelli che, verosimilmente, si sarebbero salvati, se si fossero protetti. Ai morti dopo la vaccinazione. Alle file delle ambulanze davanti agli ospedali. Alla speranza affiorata dal dolore. Come accade, nella vita di ognuno.

E non è che sia stato tutto perfetto, no. La politica è entrata pure qui, con la sua ricerca di consenso, con la sua vocazione al padrinaggio, con il vizio della nostra politica che si comporta invariabilmente allo stesso modo: prende le risorse e tenta di trasformarle in feudi. Ma il paesaggio è stato, per come l’abbiamo osservato, sincero e pieno di fiducia. “Eravamo eroi, adesso siamo niente – dice un’infermiera che, anche lei, scorge il saluto del commissario e si commuove -. Non doveva finire così”. Dove andranno i pellegrini della Sanità che qui hanno trovato un riparo? In quali luoghi? Saprà il sistema accoglierli e garantirli? Fortemente auspichiamo che sia così. Il dubbio, tuttavia, permane.

Ma siamo già al tempo dei saluti. I reduci si raggrumano intorno al commissario, questo strano – nel senso buono della stranezza – medico comunista, con i tatuaggi sul braccio, l’amore per Lenin e per il suo ambulatorio popolare, dove i poveri non pagano. E capisci che era davvero troppo strano per durare. Si riuniscono intorno all’alberello natalizio, per lo scatto di rito, come se componessero un manipolo di sopravvissuti in attesa dell’ultima carica del nemico, decisi a proteggere la bandiera. Qui, di mattina presto, c’era Marcello che ha perso i suoi affetti e si è scommesso, secondo la sua natura, nell’aiuto al prossimo. Un altro ragazzo, grande e grosso, con la barba. Eppure, perfino lui, piangeva. (Roberto Puglisi)


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