L’America cambia tutto | Ecco perché

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09 Novembre 2016, 08:54

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E alla fine è successo. Donald Trump, il milionario che imbarazzava persino i repubblicani “classici”, ha vinto le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. La sorpresa è clamorosa e fa pensare a una Brexit all’ennesima potenza. L’America profonda, la maggioranza silenziosa, bianca, spaventata e disillusa ha preferito la sua campagna di ultradestra alla candidatura, debole, di Hillary Clinton, avvertita dagli americani come l’incarnazione dell’establishment.

Perde Hillary, che vede terminare in modo drammatico una lunga e discussa carriera politica. Che paga la sua immagine logora, invisa all’americano medio in questa stagione di antipolitica, e l’errore di essersi fatta trascinare da Trump in una campagna senza contenuti, tutta incentrata su The Donald. Qualcosa a cui gli americani non sono abituati. Perdono i democratici che non sono riusciti a trovare un candidato che sapesse parlare meglio al cuore degli elettori, incartandosi tra Clinton e il quasi socialismo di Sanders. Perde, anche se non sta bene dirlo, Barack Obama, che al netto della retorica e delle celebrazioni mediatiche, chiude una presidenza che nei fatti ha schiuso le porte della Casa Bianca al populista Trump: otto anni in cui i buoni propositi sono stati ben più corposi dei risultati concreti. Ci sarà tempo perché anche i commentatori più ultrà del presidente cool ne prendano atto.

Trump ha vinto in tutti gli stati chiave, quelli in bilico, dall’Ohio alla Florida, le minoranze etniche non hanno garantito a Hillary la vittoria. L’America più profonda, quella che sfugge ai sondaggi, quella che intellettuali e giornalisti liberal snobbano e fanno fatica a prendere sul serio, ha premiato la candidatura fuori dalla politica tradizionale, in una campagna che tra gaffe e scandali è sembrata forse la peggiore della storia degli Stati Uniti. Si è fatta sentire l’America che non legge il New York Times e non ascolta il Nobel Dylan, quella a cui i progressisti non sanno più parlare. Lo stesso populismo che fa presa ormai da anni su un’Europa incattivita e spaventata trionfa contro le aspettative negli States e porta alla Casa Bianca l’uomo che vuole costruire un muro al confine con il Messico.

Fatale a Hillary, che l’americano medio non ha mai amato, è stata la sconfitta in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania (incredibile qui la debacle di Clinton), Stati in cui gli ultimi presidenti democratici avevano sempre vinto. Stati, quelli della cintura del Midwest, in cui gli americani (per lo più bianchi) hanno voltato le spalle al partito dell’asinello, imponendo un’umiliazione a sondaggisti, opinionisti e stampa liberal. Proprio come in Gran Bretagna, le elite progressiste non sono riuscite a capire il sentimento popolare. E non sono riuscite a parlare a quella massa variegata che sceglie Trump negli States o altri populismi a lui simili in Europa.

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Il trauma è profondo. La Clinton s’è presa una notte prima di parlare e concedere la vittoria all’avversario. Una scelta insolita di cautela aspettando i risultati definitivi. Una mossa inattesa che dà il senso del terremoto in casa democratica.

The Donald da candidato ora dovrà trasformarsi in presidente. Rinuncerà forse a tanti eccessi cercando di accreditarsi come un nuovo Ronald Reagan? Tanto di quanto visto in questa campagna elettorale rende parecchio scettici sulle sue capacità di riuscire nell’impresa. Le preoccupazioni delle minoranze etniche, dei mercati e dell’Europa sono più che comprensibili. Ma dagli slogan della campagna al governo qualcosa nella storia è sempre cambiato. E le prime parole di Trump, ecumeniche e distensive, dopo il successo vanno in quella direzione.

 

 

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09 Novembre 2016, 08:54

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