15 Ottobre 2012, 17:07
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“Mi sono tolto di dosso un marchio infamante ”. Il compagno Antonino Fontana esulta e si affretta a precisare: “Sapevo che si trattava di un abuso nei miei confronti, ma mi sono sempre difeso in Tribunale. Esclusivamente nel processo e mai contro il processo. Perché sono un uomo delle Istituzioni e io le Istituzioni le rispetto”.
Il marchio infamante è quello di essere andato a braccetto con i mafiosi. Con uno in particolare: Simone Castello, legato all’ala corleonese di Cosa nostra: “Eravamo soci nel 1978 – racconta Fontana – . Dal ’90 in poi non ho più avuto sue notizie. Nel ’93-’94 si sono chiusi anche i rapporti societari. Restavano in ballo solo alcune fideiussioni bancarie a cui bisognava tener fede”.
La storia ci ha raccontato che Castello ha fatto carriera nelle file di Cosa nostra, fino a diventare il postino di Bernardo Provenzano; mentre Fontana si è fatto avanti negli apparati del vecchio Pci che ha fatto del mondo cooperativo un suo punto di forza. Alla guida del partito comunista in Sicilia nel 1981 c’era un uomo tutto d’un pezzo. Quel Pio La Torre che la mafia avrebbe ammazzato un anno dopo decise di denuncia le pericolose collusioni fra mafia e il partito nelle sezioni di Villabate, Ficarazzi e Bagheria, puntando il dito contro alcuni dirigenti locali e tirando in ballo anche Fontana, che nel giorno della sua assoluzione spiega: “Con Pio La Torre non ho mai avuto problemi. Eravamo in buoni rapporti. È stata tutta una montatura politica. Non abbiamo avuto nessuna discussione, semmai c’era qualcuno nelle sezioni del partito, a Ficarazzi e Bagheria, che mi accusava di malcostume”. Il malcostume di cui parla Fontana era l’abitudine, smascherata dagli investigatori, di gonfiare le quantità di agrumi distrutti al macero per incassare più contributi dall’allora Comunità Europea. “Ci fu un’indagine giudiziaria da cui sono uscito pulito”, spiega Fontana.
L’ex vice sindaco di Villabate ricorda il giorno in cui andarono a mettergli le manette nell’ambito dell’inchiesta oggi sfociata nella sentenza di assoluzione: “Ho fatto otto mesi all’Ucciardone. Sono stati momenti terribili. Oggi posso dire di avere riconquistato la mia dignità – personale, umana e politica – che mi avevano fatto perdere”.
A proposito di politica, Fontana militante non lo è ormai da tempo: “Non ho nessun incarico. Dal 2003 sono in pensione. Allora mi sono dimesso dal partito per non immischiarlo in tutto questo”. E se gli riproponessero un incarico nel partito? “Non ci penso neppure”, taglia corto Fontana che non nasconde neppure qualche difficoltà di orientamento: “Il mio partito è il Pci. Sono un ex comunista che ha partecipato al passaggio nel Pds e nei Ds. In questo momento mi identifico nel Pd nazionale e non in quello locale”.
Ce l’ha con qualcuno in particolare? “Con alcuni bambini vestiti da uomini che devono rispettare le sentenze. Mi riferiscono ai tanti bambini che hanno fatto politica negli ultimi vent’anni e lo hanno fatto in modo sleale. Dico loro di servirsi di altri mezzi”. Non si sente vittima di un complotto, ma è evidente che Fontana ha più di un sassolino da togliersi dalle scarpe. Impossibile convincerlo a fare i nomi. “Spero che ci sia qualcuno che venga a dirmi che si sono sbagliati”, conclude. E se quel qualcuno non dovesse presentarsi?” Io sono a posto con la mia coscienza. La cosa importante è che, grazie ai miei legali, gli avvocati Nino Caleca e Michele Giovinco, sono uscito da un incubo”.
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15 Ottobre 2012, 17:07