09 Maggio 2017, 06:00
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PALERMO – È una storia spesso controversa quella dei pentiti. Tanto controversa che sul loro conto sono gli stessi giudici a pensarla in maniera opposta. Credibili secondo alcuni, inaffidabili e calunniatori secondo altri. La verità giudiziaria si complica, si allontana.
L’attendibilità dei collaboratori di giustizia è un tema delicato, tornato con prepotenza di attualità in queste ore che al racconto di Francesco Chiarello, collaboratore sotto protezione, sull’omicidio di Enzo Fragalà si è contrapposto il resoconto di Antonino Siragusa che è ancora un semplice dichiarante.
Uno dei due mente. Il primo ha detto di avere saputo da altri i particolari dell’omicidio del penalista, mentre il secondo sostiene di avervi partecipato in prima persona, seppure tirandosi fuori dal pestaggio che provocò la morte dell’avvocato.
Le loro dichiarazioni sono inconciliabili. Spetta ai pubblici ministeri cercare i riscontri per scoprire chi dei due dica la verità. Non è detto, però, che bastino o servano a raggiungere un risultato processuale univoco. La valutazione finale spetta ai giudici che possono applicare o meno l’attenuante prevista per i collaboratori di giustizia, indipendentemente dal fatto che siano già sotto protezione.
Un collaboratore può essere ritenuto credibile in un processo e addirittura calunniatore in un altro. È il caso di Chiarello. Nel luglio 2016 i giudici Biagio Insacco e Roberto Murgia della seconda sezione della Corte d’assise d’appello non furono teneri nei suoi confronti. Il processo era quello che si è chiuso con la condanna di Gaetano e Massimiliano Cinà, padre e figlio, a 14 anni ciascuno di carcere. Un altro figlio, Francesco (difeso dall’avvocato Toni Palazzotto) è stato assolto.
I Cinà erano sotto accusa per il duplice omicidio di Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo, massacrati a coltellate nella piazza del Borgo Vecchio, a Palermo, il 23 aprile 2002. L’omicidio sarebbe maturato al culmine di una lite. Le vittime avevano rubato il motociclo a Massimiliano Cinà che era andato a chiedere spiegazione alle vittime. Da qui la lite e l’omicidio.
Al processo erano stati sentiti, oltre a Chiarello, anche i pentiti Giovanna Galatolo e Fabio Nuccio. Le loro dichiarazioni furono ritenute dai giudici “talmente in contrasto con le risultanze probatorie” che non si poteva escludere la falsa testimonianza e la calunnia.
Chiarello, in particolare, raccontò di avere assistito al delitto che raccontava nei macabri particolari. Eppure i giudici gli contestarono una serie di inesattezze: aveva parlato di coltelli “grossi e lunghi” e invece erano molto più piccoli; di ferite così profonde che “gli si poteva passare un braccio” smentite dall’autopsia; non si era accorto che lo scooter di una delle vittime fosse pieno di sangue eppure aveva riferito di averlo alzato da terra e parcheggiato. Ma era il racconto degli ultimi istanti di vita di Chiovaro che, secondo i giudici, Chiarello avrebbe infarcito delle bugie più grandi. All’inizio il collaboratore disse che Chiovaro “rotolando” si era spostato di qualche metro dal luogo dell’accoltellamento per pronunciare morente, tra le sua braccia, la frase: “Cucì non è giusto. Solo che poi il pentito cambiò versione: la vittima era stata trascinata da altri, prima che sul suo corpo si accanissero gli assassini. “La versione finale – scrivevano i giudici – contrasta inesorabilmente coi dati obiettivi e con le risultanze testimoniali”.
Pochi mesi dopo cambiano il giudice e il processo, ma non il pentito. Cambia soprattutto la valutazione della Corte d’appello presieduta da Maria Daniela Borsellino. Gli imputati furono tutti condannati, anche i tre che in primo grado erano stati assolti. Sotto processo c’erano alcuni dei presunti mafiosi del clan di Porta Nuova. Persino la produzione della fiction non sarebbe sfuggita alla regola del racket. Sul set di “Squadra Antimafia Palermo Oggi” si sarebbero aggirati i mafiosi veri. La cosca di Porta nuova avrebbe controllato il servizio di trasporti e ristorazione per le troupe e gli attori della fortunata serie tv, campione di ascolti sull’ammiraglia delle reti Mediaset.
Ai difensori che tuonavano contro l’inattendibilità di Chiarello il giudice ha risposto in maniera tranciante con una motivazione articolata: “Le sue dichiarazioni appaiono logicamente coerenti e prive di contraddizioni. Non solo Chiarello ha reso dichiarazioni accusatorie in ordine alla propria affiliazione mafiosa e alla commissione di numerosi reati estorsivi relativamente ai quali non era ancora stata accertata in via definitiva o non era neppure emersa la sua responsabilità”. Da qui “la veridicità, la genuinità e l’attendibilità della confessione considerato che la stessa risulta immune da contraddizioni e reticenze, ma appare tale da aggravare la posizione rispetto alla contestazione originaria”.
Chi è Chiarello, un pentito attendibile o uno che racconta frottole, magari per ottenere la patente di pentito? Una volta ottenuto lo status, però, che senso avrebbe aggiungere bugie sul caso Fragalà che, se venissero smascherate, gli farebbero perdere tutti i benefici? Dall’altro lato con le pinze vanno prese anche le dichiarazioni di Siragusa. Non si può escludere che abbia deciso di parlare nel tentativo disperato di affossare un processo in cui rischia concretamente la condanna all’ergastolo.
Storie di mafia, di collaboratori di giustizia, o aspiranti tali, che si contraddicono. Storie di verità giudiziarie difficili da raggiungere per le quali, però, l’apporto dei pentiti resta decisivo. Non resta che attendere l’esito dei riscontri. Magari nel caso dell’omicidio Fragalà qualcun altro dei sei indagati potrebbe decidere di saltare il fosso, confermando l’una o l’alta tesi.
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09 Maggio 2017, 06:00