17 Marzo 2017, 06:20
2 min di lettura
PALERMO – La situazione gli era sfuggita di mano. Quando seppero che dopo il pestaggio l’avvocato Enzo Fraglà era in coma fu il panico fra gli uomini del clan di Borgo Vecchio. Il penalista sarebbe poi morto all’ospedale Civico. Le frenetiche ore di paura sono state ricostruite dal collaboratore di giustizia Francesco Chiarello.
All’indomani dell’aggressione, così racconta il pentito, Francesco Arcuri sarebbe andato su tutte le furie. Si appartò con Antonino Abbate e Salvatore Ingrassia in un vicoletto non lontano dal pub di via Ximenes dove si davano spesso appuntamento. “Era tutto perso, perso totale (Chiarello fa riferimento all’uso di droga, ndr)”, aggiunge il collaboratore. Arcuri “prende e dà un pugno sul vetro di questo camion che c’è fuori”.
Si tratta di un fatto riscontrato. Davvero è stato rotto il finestrino del furgone di una ditta di trasporti. “Arcuri si è lamentato pure con Ingrassia” la sera sera del pestaggio “e ci diceva ma accussì si ci dunano”. Avevano picchiato duro, troppo duro. “Francesco Arcuri faceva il pazzo – racconta sempre Chiarello – che ha saputo diciamo l’indomani che questo signore è entrato in coma…. Totò tu rissi io ci l’aveva a dare ne ammi”.
L’unica cosa da fare era, come suggeriva Ingrassia, “tinemunni chiusi su stu riscursu, dice perché se si allarga stu riscursu semu rovinati perché chiddu è in coma”. Uno dei più preoccupati era Paolo Cocco che chiese a Chiarello: “All’avvocato dice trasiu in coma… a me che cosa mi può succedere? E io ci dico attuppati a vucca, zittuti”.
Subito dopo gli arresti della prima inchiesta, Ingrassia e Chiarello si sarebbero incontrati. Il primo, detenuto a Trapani, era stato tradotto a Palermo per assistere a un processo. Ed è al carcere Pagliarelli che avrebbe detto: “Stavolta i chiavi iccaru”, dopo avere visto il video che lo riprendeva davanti allo studio Fragalà, in via Nicolò Turrisi.
Sempre in carcere “mi diceva Ingrassia che si sono visti con Di Giovanni, Gregorio, che dice c’è rimasto male per quello che è successo, perché aveva dato un ordine”. Gregorio Di Giovanni, allora reggente del mandamento di Porta Nuova, viene indicato da Chiarello come il mandante del pestaggio, ma le sole dichiarazioni del collaboratore non sono state sufficienti per incriminarlo.
Altra spia dell’agitazione erano i pizzini che Ingrassia e Siracusa si sarebbero scambiati in carcere nel tentativo di concordare una linea difensiva. In un’intercettazione telefonica parlavano del “coso di legno” usato per pestare Fragalà. La tesi da riferire agli investigatori era che stavano parlando di droga.
Il richiamo al silenzio sarebbe partito anche dal carcere, da un altro pezzo grosso del clan, Tommaso Lo Presti. Chiarello ha raccontato che “Abbate Antonino dopo avere parlato con Tommaso Lo Presti” aveva detto al collaboratore di giustizia di fare giungere un messaggio a Paolo Cocco e Francesco Castronovo “di tenersi chiusi e di non parlare da nessuna parte perché siamo tutti consumati”.
Pubblicato il
17 Marzo 2017, 06:20