Una folla saluta Agnese Borsellino | “Ha voluto fino all’ultimo la verità”

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06 Maggio 2013, 11:45

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PALERMO– Guardiamoli insieme, come per scattare una foto di gruppo. Sotto le volte della chiesa di Santa Luisa De Marillac, nell’ora della celebrazione per il commiato di Agnese Borsellino, c’è l’immagine netta di una sconfitta: la mancanza di risposte definitive. Ci sono i volti celebri che hanno cercato una spiegazione ai misteri di quell’estate del ’92 e oltre, inerpicandosi sulla salita sdrucciolevole dell’impegno antimafia. Ci saranno i pavidi che hanno abdicato, rassegnandosi, mettendosi comodi e quieti nella nicchia di un’epoca che non ha mai insegnato a vivere e in compenso ha offerto un manuale per la sopravvivenza.

La Signora Agnese, moglie di Paolo, se ne va, con la sua dolcezza, con la sua forza, circondata dai tanti che hanno amato la sua figura piccola e immensa. Ma se ne va senza verità, senza conoscere la luce tremenda nascosta sotto le macerie di via D’Amelio. Il senso di smarrimento è totale. I valorosi hanno sofferto per gli ostacoli, per le ombre sul cammino, per la sensazione di avere a che fare con un paesaggio sfuggente, pronto a difendersi e cambiare indirizzo, quando qualcuno si è avvicinato fino a scottarsi qualcosa in più delle dita. I vigliacchi sono già morti, anche se e si fregano le mani. Respirano. Si muovono. Parlano. I migliori sono stati stroncati in un corpo a corpo solitario, apparentemente condiviso, con la mafia. Al momento opportuno, il mare della solidarietà si è ritirato, prosciugandosi e lasciando l’eroe di turno solo, con lo scudo della sua ostinazione e una crepa di umanissima paura.

Non sappiamo chi e come. Ma sappiamo che sotto le volte di Santa Luisa c’è gente che merita di restare per salutare la Signora Agnese. E immaginiamo che qui, nei dintorni, o in lontananza, ci siano pure quelli che troppe volte hanno alzato le spalle. Non hanno ammazzato nessuno con l’omissione. Nessuno, a parte se stessi.

C’è Pietro Grasso, presidente del Senato, che cominciò a prendere confidenza col male quando Giovanni Falcone – come ha raccontato lui – “gli presentò il processo”. Un’infinità di fascicoli che sarebbe sfociata nel “Maxi” dell’aula bunkeer, all’Ucciardone. Qui, l’ex procuratore nazionale antimafia visse da recluso nei giorni che precedettero la sentenza. Prigioniero dello storia, con i giurati e il presidente Giordano, nella sua qualità di giudice a latere. L’unico svago? La passeggiata con barzelletta serale in un minuscolo cortile. Ora dice: “Perdiamo una grande donna, una grande madre, una persona che ha voluto fino all’ultimo verità e giustizia testimoniando anche in tutti i processi in cui è stata chiamata e con tutti i magistrati che hanno continuato le indagini”. C’è Giuseppe Di Lello, ex membro del pool antimafia con Falcone e Borsellino. Un uomo appartato a serio che ha condensato il senso di impotenza di legge e giustizia in una battuta: “Ci hanno rubato il tempo”.

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C’è Vincenzo Agostino. La sua barba lunga racconta che lo svelamento del mistero della fine di suo figlio, massacrato con la moglie, è ancora attesa. C’è Antonio Vullo, non visto, ignorato dai flash dei fotografi e dalle telecamere. Era l’autista di Paolo Borsellino. In quel diciannove luglio, nello specchietto retrovisore, vide il giudice che sorrideva e si accendeva una sigaretta. L’ultima di una serie infinita. In seguito, spiegò che gli viene difficile, a casa, accendere lampadine troppo violente: via D’Amelio esplode di nuovo nella sua testa. Antonio bacia Manfredi e Lucia, i figli di Agnese e Paolo. Ha la faccia triste di uno che si sente in colpa perché non ha saputo proteggere abbastanza, o perché non ce l’ha fatta a morire con gli altri.

E c’è padre Cosimo Scordato che, all’altare, usa parole semplici e profonde per mettere a fuoco il punto: “Siamo qui per celebrare il martirio bianco di Agnese, la sua ricerca di verità. Sarebbe un mondo migliore, se potessimo prevenire le lacrime. Ringraziamo Agnese, Paolo, i figli, per il dono che hanno fatto alla nostra comunità”.
Ecco, la verità, a portata di mano, semplice,  complicata, inaudita, scontata, che dà scandalo quando la ricerca che la precede intende andare a fondo. La verità che troppi sostengono di auspicare e che nessuno in fondo desidera. La commozione è un pianeta molto più sicuro e superficiale.

In questa storia di grandi uomini, di uomini perfidi, di servi fedeli dello Stato, di traditori, di bugiardi ed eroi quotidiani che non cercavano la morte e seppero affrontarla, si inscrive la parabola individuale di Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino.
Una donna lieve e piccola nella forma. Eppure quante speranze ha saputo dare e contenere. E’ per lei se oggi possiamo sognare di dare un nome diverso alla foto di gruppo di una cocente sconfitta. Ce ne rendiamo conto quando il feretro esce dalla chiesa e i ragazzi di una volta si alzano in piedi con gli occhi lucidi. Avevano vent’anni nel Novantadue. Sono andanti avanti con la sfiducia, con la morte e con le bombe. Agnese ha insegnato a tutti, con un esempio discreto, che non è mai inutile ricominciare. Che si può crescere e sorridere, quando intorno c’è solo dolore.

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06 Maggio 2013, 11:45

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