23 Novembre 2017, 19:33
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PALERMO – La prosa è insolita per un atto giudiziario. Salvatore Mastroeni, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina, non dispone solo il sequestro dei beni della famiglia Genovese.
Diventa censore del modus operandi che fa dell’onorevole Francantonio Genovese e dei suoi familiari, compreso il figlio Luigi, neo deputato all’Ars, “rappresentanti di quella criminalità che vive nei piani alti, nei salotti buoni della città, con abiti eleganti”. Una criminalità dalle “immense capacità attrattive, non certo emarginata come i ladri di strada, con la differenza però fornita dal dato economico che disvela la vara capacità criminale: resta oggettivo che rubare allo Stato 20 milioni di euro è, con ogni distinguo che si voglia fare, molto più grave del prendere di notte, sulla pubblica via, un’autoradio o un motorino, pur condotte che in flagranza portano quasi automaticamente al carcere e rendono soggetti miserabili e non da frequentare, delinquenti”.
È un passaggio, oltre che giudiziario, anche di analisi sociologica. Un’analisi che accoglie la richiesta della Procura della Repubblica di Messina, basata sulle indagini dei finanzieri. Il via all’inchiesta è arrivato da Milano dove è stata scoperta l’esistenza di conti correnti in Svizzera accesi da “ricchi italiani”. C’era anche quello intestato a Luigi Genovese senior, padre di Francantonio, deputato e ministro della Repubblica, oggi deceduto. Lì sono finiti i primi soldi, quattro milioni di euro, frutto, secondo i pm, di evasione fiscale.
Il giudice definisce il conto svizzero come “la madre di tutti gli illeciti, che non costituirà solo un tesoro immenso ma anche, come spesso succede col denaro, la scelta di campo di delinquere, senza poi più fermarsi, per proteggere sempre di più una ricchezza smisurata ma illegale. Questo procedimento parte da questi conti svizzeri e trova il suo epilogo, correndo per tanti reati, nelle cessioni delle società casseforti da Francantonio Genovese al figlio Luigi e al nipote Marco Lampuri”.
Genovese padre, interrogato dagli investigatori, ha sostenuto che i soldi in Svizzera ci sono finiti quando lui aveva appena un anno, e Genovese era socio fondatore della Caronte Tourist. Una difesa che Mastroeni bolla come “risibile” perché “i soldi, a differenza delle noccioline, sono tanti e di così tanto valore che non si potrebbe pensare mai che vi sia stata una detenzione inconsapevole”. Anche perché, sottolinea il giudice, che Genovese ne fosse a conoscenza sarebbe dimostrato dai continui “prelievi da questo tesoretto in nero che appare impossibile spendere anche per una famiglia altolocata, ricca ricchissima”.
Dall’interrogatorio è pure emerso che “miliardi in contanti” venivano portati in Italia “dalla Svizzera da spalloni”. Genovese li riceveva “in albergo, di nascosto”. Elementi che, messi insieme, fanno dire al giudice che si è in presenza di “una sorta di ‘apriti sesamo’ che ricorda la favola di Alì Babà e i 40 ladroni”.
Non è stata ritenuta credibile neppure la ricostruzione della fase successiva e cioè quella in cui, a dire di Francantonio Genovese, i soldi prelevati in Svizzera sarebbero stati spesi “per esigenze familiari, mie, di mia moglie, mio figlio, di mio padre, ristoranti, matrimoni, regali, ho ricevuto annualmente almeno cinquanta inviti di matrimonio. Facendo politica ovviamente… pranzi, cene, vestiti, gioielli, mobili antichi, quadri. È un dato oggettivo… io conducevo una vita abbastanza dispendiosa e anche abbastanza generosa nei confronti degli altri tenuto conto anche del mestiere che facevo”.
Le spese personali, alla fine, ammonterebbero a otto milioni di euro. Troppi, secondo i finanzieri, per non ipotizzare operazioni di riciclaggio. Il passaggio sui regali di matrimonio viene così commentato dal giudice: “Otto milioni richiederebbero partecipazioni da tutta Italia, forse Europa”. Il commento si fa ancora più duro sulla generosità che avrebbe contraddistinto l’operato di Francantonio Genovese: “Chi ruba per gli altri ha sullo sfondo la figura di Robin Hood”.
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23 Novembre 2017, 19:33