Nel cuore della movida | Nicchi e l’ultima notte da latitante

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28 Marzo 2013, 13:32

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PALERMO – Via Filippo Juvara. 4 dicembre 2009. Poco dopo le venti, un uomo esce dal portone al civico 25 della strada poco distante dal Palazzo di giustizia di Palermo. Ha indossato il casco prima di mettere il naso fuori di casa. Ad attenderlo ci sono Franco Arcuri e Antonino Abbate. Sono quasi coetanei. Hanno 29 e 31 anni. Il primo, secondo gli investigatori, è un picciotto che sgomita tra le leve della manovalanza di Cosa nostra. Il secondo ha uno spessore diverso che lo porterà a diventare il capo della mafia del Borgo Vecchio. E’ lui che garantisce la coperture necessarie. E’ nella sua zona che si muovono i protagonisti di quella sera di inizio dicembre.

I tre viaggiano su due scooter. L’uomo dal volto coperto fa il passeggero di Arcuri. Via Gothe, Via Turrisi, piazza Amendola, via Ruggero Settimo, piazza Sturzo e infine piazza Nascé, una delle zona più battute dal popolo della notte. Una terra di mezzo fra i negozi chic di via Libertà e le botteghe popolari del Borgo. La prima tappa è il wine bar Felix. Arcuri e Abbate si tolgono subito il casco. Il loro compagno rinvia il più classico e immediato dei gesti per un motociclista, e si avvia all’ingresso. Il viso resta coperto anche quando i tre escono. I poliziotti li hanno attesi fuori. Per non dare nell’occhio. Montano in sella. Per la cena hanno scelto una pizzeria poco distante. Per giungere nel locale di via Mariano Stabile seguono un percorso insolito. Schizofrenico. Anche stavolta il personaggio misterioso si avvicina all’ingresso del locale indossando il casco. Restano seduti al tavolo un’ora e mezza. Un temporale si abbatte sulla città. Fra il caos dei giovani che affollano i locali e la pioggia non è la serata migliore per dare la caccia a un latitante. “C’erano tutte le condizioni per dire basta. Per rinviare tutto all’indomani – ricorda uno degli agenti -. Eppure sentivamo che era la volta giusta. Sapevamo di avere lavorato bene. Non c’era la certezza, ma avevamo la consapevolezza che lui fosse lì”.

La cena è finita. Si ripete, neanche a dirlo, la scena del volto coperto. Poi, di corsa verso via Filippo Juvara dove nel frattempo gli agenti si sono già appostati. Centinaia di occhi aspettano il momento buono. Che arriva. Un agente riesce a guardare oltre la visiera che nasconde il volto dell’uomo che scende senza neppure aspettare che lo scooter si fermi. Intravede i baffetti e il pizzetto. I sospetti odorano di certezza. Abbate accompagna Arcuri al parcheggio dove lascia lo scooter. Poi, di nuovo in via Juvara dove il solo Arcuri sale al primo piano della palazzina. Troppo strani i comportamenti di quella notte. La storia del casco, il pizzetto e i baffetti, e quegli scooter che sfrecciano per le vie del centro.

Spostamenti rapidi. Toccate e fuga. In giro per i locali della città. Per divertirsi e sentirsi un ragazzo normale. Oppure per incontrare i parenti. La voce del boss che sfida i controlli smanettando per le strade della città circolava da un pezzo, alimentando la sua immagine di astro nascente di Cosa nostra. Che sfidava tutto e tutti. E’ in sella a uno scooter che la sera del 5 febbraio 2009 aveva raggiunto il ristorante Grand Gourmet di corso Pisani. Una cena in famiglia con la sorella Francesca, la compagna Rossana Addotto e il cognato Luigi Giardina.

Torniamo in via Juvara. E’ il 5 dicembre. All’indomani della serata mondana, nella casa al primo piano arriva Giusi Amato, la ragazza che poi si scoprirà avere preso in affitto l’appartamento. E’ una vecchia conoscenza di Abbate che all’ora di pranzo si fa vivo con tanto di sacchetti della spesa. Sale nell’appartamento. Si trattiene per pochi minuti. Bisogna decidere in fretta. Tocca a Mario Bignone, capo della Catturandi, guidare l’irruzione. Alle 14 e 50 sfondano la porta. Gli occhi del poliziotto, la sera prima, avevano visto bene. C’è Gianni Nicchi dentro. Il latitante è a cavalcioni sulla finestra che si affaccia sul lucernario. Un gesto istintivo più che un vero tentativo di fuga. Sa bene che non ci sono vie di uscita. La zona è circondata. Gli agenti sono ovunque. Vigilano su ogni spiraglio di luce tra i palazzi del quartiere. Il latitante chiede se ad ammanettarlo sono quelli della Catturandi a cui porge i polsi senza fare più resistenza. Sapeva che a braccarlo c’erano anche i carabinieri. Fuori si è radunata una folla di curiosi. Poi, la corsa in macchina, il passaggio davanti all’albero Falcone, l’arrivo alla squadra Mobile, la festa dei ragazzi di Addio Pizzo.

Al latitante viene data la possibilità di incontrare la sorella da cui riceve una borsa con degli indumenti che gli serviranno in carcere. Durante il trasferimento al Pagliarelli, prima di finire in un carcere di massima sicurezza, Nicchi si lascia andare persino a una battuta. Strano destino il suo. Il carcere si trova nel quartiere da cui prende il nome e dove è cresciuto. Il quartiere che ha assistito alla sua scalata al potere. I poliziotti glielo ricordano e lui la butta lì “se avete bisogno di qualcosa…”. Il tono è ironico. Le sue non sono più parole di sfida. Nicchi è in carcere. Mario Bignone, con i suoi uomini, ha vinto la battaglia con il latitante. Mesi dopo perderà quella con un male incurabile. Il casco grigio del latitante, quello che gli ha coperto il volto, adesso è in una stanza della Squadra mobile. Accanto al bastone di Benedetto Spera e al maglione di Mimmo Raccuglia. Cimeli di guerra.

Finisce così la latitanza del picciutteddu. L’uomo più ricercato di Palermo. Chissà quanta gente ha riconosciuto in lui, dopo l’arresto, il compagno di mille aperitivi. Troppo simile a loro per sospettare che dietro i vestiti alla moda si nascondesse l’astro nascente di Cosa nostra. Il ragazzo che in un tema delle scuole medie confidava allo zio di voler fare l’elettricista, da grande era diventato uno dei boss più temuti della mafia palermitana.

 

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28 Marzo 2013, 13:32

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