12 Settembre 2017, 06:00
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PALERMO– “Non ci credo, amico mio. Non voglio crederci, per me Gigi è qui, accanto a me”. Che parte tocca adesso a Tony Sperandeo, ruvido e immenso artista palermitano. Gigi Burruano, l’amico di una vita, il compagno di strada, l’altra faccia della stessa maschera, riposa nella luce soffusa del Teatro Biondo, lì, dove hanno allestito una camera ardente. Ci sono molti modi di stare sulla scena. Luigi Maria Burruano se ne va, tra affetto e rimpianto, ma non può più sentirli. Tony osserva il finale e non riesce a scaldarsi, nonostante tutto, al fuoco della memoria. Entrambi, diversamente legati, a una sottrazione, su vie parallele, come sempre e per sempre.
“Amico mio, non ce la faccio parlare”; la voce di Sperandeo all’altro capo del telefono è un lontananza roca e gentile. “Gigi non è morto, no. Abbiamo passato insieme cinquant’anni, capisci? Non ci vedevamo più, ma ci sentivamo. Una cosa puoi scriverla: siamo sempre stati dei cani sciolti, degli uomini liberi. Nessuno ci ha mai regalato niente. Siamo stati noi stessi fino in fondo”.
Gigi Burruano non c’è più, davvero, e Palermo sperimenta lo choc. Non se l’aspettava. Era convinta che quel santo patrono dal sorriso beffardo e dallo sguardo innocente l’avrebbe accompagnata a lungo. Scoprirlo morto è stato troppo.
Ma poi, a riannodare il filo, ci pensano loro che hanno condiviso palcoscenico, riflettori, cerone e passioni. Loro che hanno guardato il pubblico, spiando dalle scuciture del sipario. Che, per anni, hanno atteso il suggerimento giusto dall’uomo in penombra che offre la battuta, da una una poltroncina abbandonata e malinconica, dietro le quinte. Loro, gli attori (alcuni) di Palermo raccontano Luigi Maria, il suo respiro difficile, la sua arte.
“Era un grandissimo attore – dice Mario Pupella -. Ci siamo incontrati, da giovani, sulle assi di un teatro. Allora, dovevamo fare tutto noi: recitare e pubblicizzare lo spettacolo. Scendevamo a piedi, dalla stazione, fino alla statua, per affiggere la locandina nei negozi. Gigi si metteva una faccia seria seria. Entrava: ‘Buonasera, sono un agente promozionale’. E io dovevo stare attento a non ridere. Ci mandavamo i saluti a distanza, grazie a conoscenti comuni. Dieci giorni fa, le sue ultime notizie. Non sapevo che stesse così male, è stato un pugno nello stomaco”.
Giacomo Civiletti è una persona riservata. Con garbo sceglie di non dire nulla. Il suo dolore rimane circoscritto su facebook: “Mi piaceva lavorare con Gigi, la nostra intesa era perfetta, alcune cose le inventavamo lì per lì, bastava uno sguardo era come se ci facessimo i segnali a briscola, chi ci ha visti lo sa. Con una passerella mai provata impressionammo Costanzo a Roma. Al giardino zoologico (posto adattissimo a noi due belve) Garinei ci buttò in pasto ad un pubblico d’addetti ai lavori nell’ultimo dei quattro o cinque provini che ci fece prima di prenderci: fu un trionfo e facemmo il Rinaldo. Io, Gigi, volevo sorprenderlo e farlo ridere in scena. Per me era una grandissima soddisfazione, più del più grande applauso del pubblico che poi arrivava ed io a fior di labbra gli dicevo : a sienti a musica?”.
Costanza Licata ricostruisce la vicenda dall’inizio: “Gigi era entrato a casa mia a diciassette anni. Salvo, mio padre, lo amava. Lui si era presentato, al tempo dei ‘Travaglini’: ‘Sai, io so mimare la cronaca di una partita. Eccola’. Papà si scassava dalle risate: ‘Domani sera debutti’. E Gigi: ‘Ma io sono un timido…’. Alla fine, papà lo prese di peso e lo lanciò in scena. Fu l’avvio di tutto. Era un uomo dolce e fragile, Gigi. E forse non è stato fortunato. Amava Palermo alla follia”.
Ancora un aneddoto: “Una sera, eravamo insieme a cena e c’era la sorella di un’attrice televisiva che parlava malissimo dei palermitani. Gigi aveva portato, da ragazzo educato, un panierino di frutta di martorana in regalo. Quando la signora fece per prenderlo, alla fine, lui si oppose: ‘No, hai parlato assai. Ora lo posi qua’. Mio padre chiosò: ‘Giusto…”.
L’arcipelago Burruano. Maschera e sostanza. Effervescenza e malinconia. E non sapevi mai da che lato attraversarlo. Ma ha seminato tenerezze e ricordi, di cui non era perfettamente consapevole. Salvo Piparo, poeta di strada, vicino come un figlio, ha ricopiato su facebook, nel saluto, lo struggimento: “Ti ho amato come si ama un padre. La tua voce la porterò sempre con me. E se adesso dicessi “che sono stato onorato di averti conosciuto” Tu mi risponderesti: ‘Viri ca Onorato è chiddu ri casci i muartu!’“. Lollo Franco, accorso tra i primi nella camera ardente del Biondo, ha promesso: “Farò in modo che non si perda la memoria”.
Rammenta, adesso, Paride Benassai: “Gigi era un uomo molto forte e addolorato. Esorcizzava i suoi guai con l’ironia e con la rabbia. Non si fermava mai. Non si dava mai per vinto. Da cosa derivava tanto dolore? Non lo so, era come un cielo con infinite costellazioni. Come puoi riconoscere una stella soltanto? Io l’ho conosciuto dopo il liceo. Lui era già un capostipite e un punto di riferimento. Ci siamo voluti bene, abbiamo litigato, abbiamo fatto pace. Venti giorni fa gli ho parlato per l’ultima volta. Scherzava sul telefonino che a casa non prendeva: ‘Devo stare in balcone, d’inverno dovrò mettermi il cappotto…’. Quando era davanti al pubblico, si trasformava, viveva per il suo lavoro. Noi abbiamo scommesso sul nostro mestiere di attori, sul fatto che si potesse vivere, recitando”.
Ed è forse questo il senso di questa vita, di questa morte e di queste lacrime. La scelta che ha cambiato tutto. Tu vivi, muori, piangi, ridi. E gli altri lo chiamano teatro.
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12 Settembre 2017, 06:00