26 Agosto 2012, 12:54
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Chi era il conte Carlo di Naso? Io non lo so, ma Giovanni Ventimiglia mi avverte cortesemente che su Wikipedia, alla voce “Ventimiglia (famiglia)”, dopo le notizie su Carlo di Naso, trovo quelle che lo riguardano. Infatti il filosofo che mi accingo a incontrare è discendente di una delle famiglie più antiche e nobili del Regno di Sicilia. Di lui, la massima autorità anglosassone nel campo della filosofia, (Anthony Kenny, nominato baronetto dalla regina Elisabetta) ha scritto recentemente che “non ha rivali” nella conoscenza della tradizione analitica e della tradizione tomistica della storia della filosofia. Non riesco neanche ad immaginare cosa possa significare portare un cognome che risale al XIII secolo e la cui storia è essa stessa parte integrante della storia della Sicilia medievale e moderna.
“Alcuni miei antenati hanno fatto la storia di Sicilia, in effetti, e per questo – cito a memoria da Mango di Casalgerardo – sono stati decorati di un numero immenso di feudi e specialmente della contea e marchesato di Geraci”. Molti palermitani, per esempio, non sanno che la via dove vanno a prendere il gelato, via Belmonte, prende il nome da Giuseppe Ventimiglia principe di Belmonte, che fu un grande, coraggioso, uomo politico liberale, protagonista di storiche battaglie contro la monarchia feudale. Tuttavia, nonostante i titoli e i privilegi – come quelli, rarissimi, di battere moneta e di fregiarsi del titolo di “altezza” “per grazia di Dio” – la mia famiglia di fatto è in declino dalla fine del Cinquecento. Insomma vanto, si fa per dire, una decadenza di più di quattro secoli! Quindi quando ho letto quelle parole di Anthony Kenny, sul Domenicale del “Sole 24 ore”, ho pensato, in effetti, che era da qualche secolo che non una cosa del genere non si diceva di un Ventimiglia ….Portare un cognome importante come questo può condurre a due eccessi opposti: viverlo come un peso schiacciante che immobilizza, oppure rifugiarsi in circoli dove ancora i meriti degli antenati bastano ad alimentare l’illusione di essere importanti. Capisco il primo atteggiamento ma mi infastidisce il secondo: i meriti, come le colpe, sono solo personali ed è ridicolo vantarsi di meriti non propri, di titoli acquisiti da persone ormai morte. Per quanto mi riguarda cerco di vivere il nome che porto non come un peso né come un vanto, ma come una responsabilità e un dovere. Solo i meriti, le belle cose che una persona realizza nella propria vita danno il diritto di essere orgogliosi del nome che si porta. Altrimenti si è soltanto, come si dice in Sicilia, “quadri antichi”, simili alle tristi figure impolverate del Gattopardo. Nobiltà significa per me fare cose belle, belle imprese”.
Lei è un filosofo. La filosofia vive oggi un momento di grande vitalità. Lascia le aule e si riversa nei Festival, nei dibattiti, perfino negli “sportelli filosofici”: come giudica questa dislocazione?
Non è così in tutte le parti del mondo. In Italia la filosofia pop è un fenomeno forte. In altri paesi il filosofo è un professore, non va in televisione o ai festival. Del fenomeno italiano penso bene e male: bene perché significa che c’è una domanda crescente in molta gente sul senso della vita e sulla verità delle cose. La risposta però non è sempre di qualità: qualche collega utilizza l’affabulazione, una sorta di potere magico della parola, più che la comunicazione dei risultati delle proprie ricerche. Ciò perché spesso, specie in Italia, non si fa ricerca in filosofia e allora si nasconde questa lacuna facendo semplice divulgazione in salsa esistenzialista, affidandosi a un linguaggio ostico, incomprensibile. Sogno un festival della filosofia dove vengano presentati in modo comprensibile solo le novità, le nuove scoperte, risultato delle proprie ricerche!
La filosofia può fare a meno di un lessico specialistico, di una rete di riferimenti e di un’argomentazione colte ma talvolta poco comprensibile? Oppure, può arrivare anche ai “profani” senza snaturare il proprio linguaggio e i propri temi?
La filosofia si occupa di cose difficili. Può farlo in due modi: “continentale” e “analitico”. I continentali si beano di un eloquio incomprensibile. Gli analitici si sono dati un’autoregolamentazione che consiste nel rifiuto di un linguaggio inutilmente complicato. Detto questo, tuttavia, è necessario un maestro e un cammino di iniziazione, proprio perché i contenuti restano difficili. Quando qualcuno dice oggi che in fondo la filosofia è una disciplina facilmente accessibile a tutti, molto probabilmente si riferisce ad una forma banalizzata di filosofia, oggi molto di moda in Italia, e non alla vera filosofia, che è una cosa bellissima ma seria e difficile.
In fondo la prima vocazione della filosofia fu dialogica: alcuni dialoghi platonici hanno marcati aspetti teatrali e già gli antichi ne vedevano una derivazione dal mimo, di cui pare che Platone fosse appassionato. Quegli approcci spettacolarizzavano la ricerca di senso che pervade la vita quotidiana di ciascuno, senza approdare necessariamente alla scrittura. C’è filosofia senza scrittura (e lettura)?
A dispetto di quanto direbbero altri colleghi filosofi, io dico: sì. Si può fare filosofia senza sapere né leggere né scrivere. Io ovviamente leggo i libri, li scrivo e spero che i libri rimangano, ma Socrate non scrisse nulla e chi difende la cultura libresca rischia di finire fra qualche anno in circoli nostalgici tipo raduni degli alpini, perché la cultura dell’immagine sta via via soppiantando quella della parola scritta. Per quello che mi riguarda ho provato a sperimentare forme nuove di didattica: da anni a Lugano tengo corsi di filosofia e cinema oppure di filosofia e musica, dove, al limite, non è necessario saper leggere. Partendo dal contenuto – non mi interessa molto la filologia del film o la filmografia dell’attore – discuto con i partecipanti di temi filosofici a partire dai film e dai testi delle canzoni più ascoltate del momento. Arriviamo persino a ballare in aula! Io amo ballare! Ho visto che i ragazzi, quando sono in difficoltà, citano pezzi di canzoni: il loro Blaise Pascal è Vasco Rossi. E allora io vado a commentare Vasco Rossi. Nella discussione critica delle sue canzoni, come di quelle di altri, c’è poi la possibilità di accorgersi di che cosa non va, di quei contenuti che magari passano in modo subliminale: errori, messaggi sbagliati, contraddittori, immorali o semplicemente banali. Tutto questo riesce perché i film o le canzoni suscitano emozioni e coinvolgono. E quindi la discussione è più facile e appassionata. Una noiosissima conferenza sugli stessi temi non sortirebbe lo stesso effetto sui giovani.
A proposito di spettacolarizzazione, Lei farà parte di quello che si può definire un esperimento, un format televisivo che anziché amplificare la mediocrità e la banalità sfrutta il desiderio, sempre più consistente in una parte degli spettatori, di pensare la realtà e non soltanto subirla. Ci può dire qualcosa in più?
Non posso dire tutto! Bisogna mantenere viva una certa attesa! Comunque si può dire che la trasmissione si chiamerà “Se stasera sono qui”, è stata ideata e sarà condotta dalla mitica Teresa Mannino, palermitana doc, tra l’altro laureata in filosofia, e andrà in onda a partire dal 7 settembre su La7 il mercoledì sera in prima serata. Di solito oggi le trasmissioni culturali sono noiosissime e quelle comiche sono banali. L’intuizione geniale e coraggiosa di Teresa Mannino è di creare un palcoscenico delle idee, serio ma non noioso, divertente ma non banale: è una scommessa assoluta! Forse deluderemo qualcuno che vuole solo ridere o solo ascoltare cose serie, ma noi speriamo che vi sia finalmente la possibilità di fare cultura in modo non pesante, cioè in modo scanzonato, ironico e autoironico. Shaftesbury diceva che l’umorismo è il miglior rimedio contro il fanatismo, e di fanatismi in Italia ve ne sono molti e di ogni colore! Insieme ad un’antropologa e ad un altro siciliano, scrittore e musicista, io commenterò quello che succede (se non vengo “bocciato” dopo la prima puntata!). Proverò a interagire con i comici: una sorta di “ibridazione” – parola un po’ abusata – fra alta cultura e comicità. Il provino, al Teatro Zelig, è andato bene: d’altra parte anche i comici trattano certe volte i temi seri della vita, seppur in modo divertente. Ed anche i filosofi dovrebbero imparare a ridere e a non prendersi troppo sul serio. Tanto più che, spesso, sono naturalmente ridicoli!
Socrate, nell’Apologia platonica, dice ai suoi giudici che la filosofia è per lui “servizio” reso al dio di Delfi e che non rinuncerà ad esso nemmeno per salvarsi la vita, (latreia): ha ancora senso pensare la filosofia come servizio?
Ne ho accennato prima parlando della nobiltà. L’impresa più bella di tutte consiste nel servire gli altri. Non solo con le mani ma anche con la testa, con la propria intelligenza. Anche per questo ho fondato “Pro-filo-umano”, un’associazione non profit . Si tratta di una filosofia dal volto umano, intesa come servizio sociale. Insieme al mio gruppo di volontari, vado nelle carceri, nelle case per ex tossicodipendenti a discutere di bene, male, verità, giustizia, libertà, memoria, passato, inconscio. Si tratta di un’esperienza, condotta instaurando una relazione “affidabile” con questi “studenti speciali”, bellissima, perché vengono fuori domande filosofiche vere (non le domande erudite, inutili e bacchettone di molti studenti di filosofia). La tentazione è quella di fornire risposte, invece che stimolare domande, ma io evito di fornirle. Ciò che voglio è fare venire un dubbio, innescare un viaggio interiore e intellettuale nei detenuti o negli ex tossicodipendenti, rompere luoghi comuni e mettere in discussione alcune loro false certezze. A volte, certo, bisogna dare delle risposte, per non creare la falsa impressione che non esista la verità o che tutte le verità siano uguali. A dare senso a questa nostra esperienza con loro, tuttavia, non sono soltanto i temi di cui parliamo, ma la relazione stessa con questi studenti speciali, la quale, di per sé, diventa terapeutica: infatti, incontrarsi per parlare insieme di cose come queste, non banali, genera un legame interiore quasi intimo, quasi imbarazzante. Dovrebbero farlo tutti: incontrarsi per parlare di cose alte. E’ un modo meraviglioso per non sentirsi soli e per stare vicini agli altri. Un modo molto bello per fare amicizia.
Abbiamo citato Socrate e Platone. Che effetto fa ad un filosofo sentire parlare della Grecia nei termini in cui oggi se ne parla nei summit dei capi di stato, nelle riunioni di banchieri e infine sulla colonne dei quotidiani? È sentimentalismo ritenere la Grecia parte integrante e fondante dell’Europa?
Il problema è alla radice. Se l’unione europea è unione solo economica e monetaria, allora i paesi che non soddisfano i requisiti economici sono fuori. La cosa grave è che non si è pensato ad un’unione culturale europea. Eppure, nel discorso stesso con il quale un domani, Dio non voglia, si proclamasse che la Grecia è fuori dall’Europa, si dovrebbero inevitabilmente adoperare parole che sono state greche, il cui senso ha avuto origine in Grecia! Sarebbe terribile e autocontraddittorio. Sarebbe come scrivere sui muri “basta con i colori” utilizzando vernici colorate! In Svizzera, oltre al luogo di nascita, si suole indicare nei documenti d’identità anche la “attinenza”, cioè il paese da cui proviene la famiglia. Ebbene, l’Europa è “attinente” di Atene!
Anche le idee disegnano, nel loro evolversi, rinascere, mutare, una geografia: accade anche alla filosofia? Non c’è alcun legame fra i pensieri e i luoghi fisici in cui sono nati?
No. Sono come figli, che devono tagliare il cordone ombelicale per sopravvivere. La disciplina di cui mi occupo, la metafisica o ontologia, è nata in Grecia. Poi i traduttori musulmani a Toledo e a Palermo l’hanno divulgata e infine è arrivata in Europa, che fino al 1200 non aveva letto ancora nulla di giganti come Platone e Aristotele. La metafisica ha parlato tedesco fino a 20 anni fa, poi si è trasferita per una serie di circostanze nei paesi anglofoni e, mentre l’Europa si attardava su un pensiero talmente “debole” da diventare esangue, la metafisica si spostava – oltre che a Oxford, Cambridge e New York – in California, in Australia e in Nuova Zelanda, dove oggi sono edite le migliori riviste di filosofia del mondo. Come per l’economia, sembra che l’asse della filosofia si stia spostando sulle sponde del Pacifico!
In una sua personale geografia, quali luoghi hanno costruito o fatto da sfondo alla sua biografia personale e intellettuale?
Palermo, Cefalù, Gangi, i luoghi della mia infanzia. Le Madonie in generale sono un richiamo ancestrale, mi danno aria per potere poi respirare quando vado fuori. Poi viene Milano, dove sono arrivato la prima volta di nascosto ai miei genitori, per fare il concorso di ammissione al collegio Augustinianum dell’Università Cattolica e dove sono rimasto grazie all’allora Rettore della Università Cattolica – Giuseppe Lazzati, padre costituente – che convinse i miei genitori inizialmente contrari a farmi studiare filosofia. Dopo Milano, nella mia geografia personale, viene Monaco di Baviera, dove ho fatto la specializzazione e il dottorato. A Milano, che ritengo un luogo dove chi ha qualcosa, un talento, ha possibilità di vederselo riconoscere, ho sentito comunque forte il razzismo contro i meridionali. Monaco, invece, era ed è molto più aperta alla cultura del Sud (forse perché è essa stessa il Sud della Germania!). E mi è rimasta nel cuore. Facevo una ricerca sulle fonti di Tommaso d’Aquino e scoprii una sua citazione occulta da un filosofo arabo. Lo comunicai al professore con cui lavoravo ed egli fece interrompere tutte le lezioni dell’istituto, radunò gli studenti in un’aula, spiegò loro il senso della mia scoperta e stappò una bottiglia di champagne! In Italia, la cosa sarebbe stata tenuta segreta o valutata a fini concorsuali. Infine viene Lugano, che è ormai la mia patria, e mi ha accolto finanche nella commissione culturale del Municipio. In futuro, mi sogno a Sidney o in California, tra le sponde del Pacifico. Ma forse resterà solo un sogno.
Sicilia. Per alcuni è metafora, per altri è come la siepe leopardiana, che delimita il “questo” e apre al “quello”, per altri ancora è sirena odissiaca, che incanta e trattiene, da cui difendersi. Per Lei?
L’amore per la Sicilia è per me come l’amore per dei genitori ormai anziani. Non l’amore della fanciullezza, quando i genitori si amano perché creduti grandi e belli; non l’amore dell’adolescenza, che assume la forma della critica e della contestazione, ma l’amore della maturità, quando i genitori si amano per quello che sono, con i loro pregi e i loro ormai ineliminabili difetti, con le debolezze e le rughe della ineluttabile decadenza e della morte imminente. La Sicilia, ogni volta che torno qui, mi sembra consegnata ad un destino di ineluttabile decadenza. Tuttavia, lo confesso, ascolto ogni parola che ancora esce dalla bocca di questa donna anziana, un tempo bellissima, con una gioia infinita. E’ una parola, anzi un filo di voce, che, ogni anno, mi dà la vita.
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26 Agosto 2012, 12:54