09 Aprile 2013, 11:17
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Per parlare del libro di Totò Cuffaro “Il candore delle cornacchie” bisogna decidere il presupposto di partenza: si giudica il libro o si giudica l’autore? Roberto Puglisi sostiene che è un grande libro e rimprovera chi ne ha criticato la presentazione al premio Strega, chiedendo a quanti hanno mosso dubbi e perplessità se prima lo avessero letto. Puglisi ci spiega che lui lo ha fatto, ne ha concluso la lettura delle ultime pagine davanti al mare di Sferracavallo e si è emozionato. E commenta: “Le sue parole mi hanno scosso. Sono le parole di un colpevole, di una cornacchia. Ma sono pulite. Somigliano all’innocenza”.
Il giudizio di Puglisi sembra, dunque, più un giudizio sull’autore che sul libro in sé. Questione, mi rendo conto, sempre complicata perché è difficile, se non impossibile, separare l’opera dal suo autore, soprattutto quando il libro affonda nell’autobiografia, nella vita vissuta dell’autore. Nel memoriale, appunto.
Sotto il profilo del memoriale, quello di Totò Cuffaro è sicuramente un libro notevole. Ci parla del carcere, ci parla della reclusione, dell’hortus conclusus della realtà penitenziaria. Per citare Michel Foucault, Cuffaro ci spiega come, in un Paese che spesso si vanta del suo vasto armamentario di garanzie scritte, la condizione del detenuto è ancora quella di una riduzione dell’uomo “a cosa tra le cose”: numero, procedura, funzione, ruolo, collocazione, topografia, matricola, posizione, cella, orario, ripetizione, contenimento, privazione.
Insomma, da questo punto di vista il libro di Cuffaro è una testimonianza amara e sofferta della condizione di un detenuto dentro il sistema carcerario italiano. “Il carcerario” scrivevano nei loro comunicati i brigatisti degli anni Settanta e Ottanta, quasi che la reclusione appartenesse a una categoria astratta ed enumerabile, al pari di certe classificazioni zoologiche o mediche. Il “carcerario” come situazione dell’umana specie in certi luoghi e momenti storici. Terribile situazione.
La descrizione minuta della vita quotidiana dentro quelle mura non può che provocare umana condivisione e cristiana comprensione, toccando le corde più profonde dell’uomo libero ancora capace di riconoscere se stesso nell’altro al quale sia stata tolta la libertà.
Il memoriale dolente di Cuffaro si iscrive nella vasta produzione di chi è stato al di là di quelle mura e con strumenti culturali adeguati – portati da fuori o, in alcuni casi, faticosamente trovati là dentro – sia riuscito a raccontarci un mondo di umiliazioni e privazioni. E basta ricordare i nomi di Adriano Sofri o il film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire” o il documentario “Milleunanotte” di Marco Santarelli, tanto per stare alle cose più recenti. Ecco, il libro di Cuffaro è sicuramente, come dice Puglisi, una testimonianza autentica, sincera e drammatica.
Può bastare questo per andare al premio Strega? Forse no, se è vero che quel premio, malgrado polemiche e manovre editoriali, resta comunque un premio letterario; e se è vero che per letteratura si intende un’opera creativa che, pur partendo spesso da esperienze private e personali, passa attraverso un processo di rielaborazione artistica. Da questo punto di vista, a me pare che il libro di Cuffaro sia un diario personale purtroppo simile a quello di molti altri detenuti che hanno raccontato i loro giorni più bui. E per averne coscienza è sufficiente fare un giro su Internet per vedere cosa scrivono i detenuti italiani e stranieri reclusi nelle nostre carceri, al punto che più di un editore ha raccolto, anche recentemente, racconti, testimonianze e scritti provenienti da oltre le sbarre. Parole che indignano e fanno rabbrividire chiunque abbia a cuore i diritti elementari della persona umana.
Capisco bene che l’interesse è sicuramente più acceso quando il detenuto è illustre, quando la sua storia è stata pubblica sia nell’ascesa che nella caduta, quando la sua parabola è avvenuta interamente sotto la luce dei riflettori. Ma se è così, allora il giudizio non è più sul libro, ma sul suo autore. E se parliamo dell’autore (non dimenticando né ignorando il rispetto che si deve alla sofferenza di un uomo e dei suoi familiari) a Puglisi mi viene da dire che da Totò Cuffaro, dall’ex presidente della Regione, dal politico potente, mi aspetterei adesso un altro libro.
Un libro che ho cercato tra le pagine del suo “Il candore delle cornacchie” (l’ho letto anch’io, caro Roberto, e con grande attenzione), ma che non ho trovato. Un racconto che sia l’autobiografia del potere in terra di Sicilia. Cuffaro si è sempre dichiarato innocente, ed è un suo diritto inalienabile, anche a fronte di una sentenza che dice il contrario. Ma proprio per questo da Totò Cuffaro avrei voluto l’analisi di come si articola il potere in Sicilia. Un libro di domande, magari, se non di risposte. Interrogativi come questi, ad esempio. Come si costruisce il consenso? Che valore ha l’amicizia in politica? Esiste la lealtà? Esiste la fiducia? È possibile comandare in Sicilia senza la mafia? È possibile comandare senza l’antimafia? E a cosa corrispondono oggi queste definizioni? Cos’è la ricchezza? Esiste veramente la vertigine del potere? Come si misura il compromesso? La morale in politica è un vantaggio o uno svantaggio? È ancora possibile governare questa terra?
Vorrei leggere un libro su questi e su molti altri aspetti da parte di chi ha attraversato anni cruciali e decisivi, analizzati alla luce fredda del presente. Credo che Cuffaro queste cose se le chieda, soprattutto oggi. Immagino che, nelle troppe ore vuote e lunghe di lì dentro, si sia interrogato su errori, colpe, responsabilità, non tanto personali, ma collettive; di classe dirigente, intendo. Gli stessi rovelli che si sono posti, dall’esterno del potere e delle sue declinazioni siciliane, Federico De Roberto, Giovanni Verga, Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Tomasi di Lampedusa. Ecco, un libro così, con lo stesso grado di intensità e di autenticità di quello che ha scritto Cuffaro, ci starebbe proprio bene al premio Strega.
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09 Aprile 2013, 11:17