10 Gennaio 2021, 15:34
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PALERMO – Era l’11 gennaio 1996, venticinque anni fa. Il piccolo Giuseppe Di Matteo veniva strangolato dopo 779 giorni di prigionia. Il suo corpo sciolto nell’acido. Avrebbe compiuto quindici anni otto giorni dopo.
Quando gli uomini di Cosa Nostra lo sequestrarono per fare tacere il padre, il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, doveva ancora compiere tredici anni. “Ti portiamo da tuo padre”, dissero a Giuseppe rapito in un maneggio il 23 novembre 1993.
“Allibertativi du cagnuleddu” (liberatevi del cagnolino), ordinò Brusca. Suo fratello Enzo Salvatore lo teneva per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò (leggi il racconto dell’orrore). Fu uno dei tanti omicidi commessi e ordinati dal boss di San Giuseppe Jato che grazie al suo pentimento ha evitato l’ergastolo e sta scontando una condanna a trent’anni.
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Quanta gente ha ammazzato? Il numero esatto Brusca non lo ricorda. “Meno di duecento”, si limitò a dire con un’indifferenza che non può trovare giustificazione neppure nella bestialità.
Nell’anno appena iniziato non ricorre solo il venticinquesimo anniversario di uno dei crimini più efferati nella storia infamante di Cosa Nostra. Dopo 25 anni di carcere (il numero ricorre per uno scherzo del destino), per Brusca il 2021 dovrebbe essere l’anno della liberazione. Sta finendo di scontare la pena.
Gli spettano gli sconti per la buona condotta, da sommare alle decine di permessi di cui ha goduto in questi anni. Lo prevede la legge e va accettato anche quando, ed è questo il caso, viene il voltastomaco. Non si tratta di mostrare senso di umanità verso un uomo che non lo meriterebbe, ma di rispettare le regole. Perché senza regole non c’è stato di diritto e senza stato di diritto non c’è giustizia.
L’insofferenza nel sapere che a breve Brusca tornerà libero è comprensibile, ma sono queste le regole di ingaggio che si è scelto di adottare per combattere un nemico terribile qual è Cosa Nostra. Inutile appare il paragone con Totò Riina e Bernardo Provenzano che, al contrario di Brusca, in carcere ci sono rimasti fino all’ultimo respiro, anche quando la loro condizione di salute era incompatibile con un quadro di pericolosità.
E semmai un altro il tema che andrebbe affrontato, ed è per certi aspetti più delicato. Non si ha a che fare con la ripugnanza morale che la vita criminale di Brusca suscita in tutti noi, ma con il suo percorso di collaborazione. Nei mesi scorsi la Cassazione respinse il ricorso del capomafia stragista – fu lui a premere il telecomando nella strage di Capaci – che chiedeva di trascorrere l’ultimo periodo di detenzione ai domiciliari.
Non c’è stato in lui “un effettivo compiuto ravvedimento”. Dopo un quarto di secolo in carcere non c’è “la prova certa e definitiva del suo ravvedimento”, nonostante abbia detto di essere un uomo cambiato. È vero, dicono gli psicologi, che ha mostrato una volontà di cambiamento, che è stato in contatto con un’associazione antimafia e ha fatto volontariato, che “si sofferma sui propri misfatti senza riluttanza e rigetta letture giustificazioniste”, che definisce Cosa nostra ‘lurida e schifosa’ e che ha dato un contributo determinante in numerosi processi”. Tutto ciò non basta, però, perché serve “un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile”.
Oltre alla legittima angoscia che provoca la sua scarcerazione sarebbe necessario rivedere criticamente il suo percorso dichiarativo. La Direzione nazionale antimafia nel 2019 aveva espresso parere favorevole alla concessione degli arresti domiciliari come ultimo premio per il suo “contributo eccezionale alle indagini”. La reazione dei parenti delle vittime come Maria Falcone, sorella del giudice assassinato, e Tina Montinaro, vedova di Antonio, il capo scorta del giudice, morto assieme a lui nel ’92, fu di sdegno.
La verità è che lo Stato con Brusca è stato magnanimo alzando al massimo l’asticella della premialità, nonostante le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi ricordi. Ondivago fu nel raccontare la storia del papello, la lista delle richieste che i corleonesi avrebbero avanzato allo Stato per fermare le stragi. All’inizio Brusca disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea. Ne era venuto a conoscenza a cavallo dei due eccidi, appena dopo quello di Capaci.
“Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca. Silente per un lungo periodo Brusca lo è stato anche sulle figura di Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Aveva paura, così si giustificò.
A dire il vero tacque a lungo pure su Calogero Mannino, recentemente e definitivamente assolto dall’accusa di avere dato avvio alla trattativa fra la mafia e lo Stato. Ad un certo punto si ricordò che Totò Riina voleva ammazzare Mannino “perché una volta non si mise a disposizione per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile”. Il processo non fu aggiustato.
Ricordi improvvisi, seppure importantissimi, tornati alla memoria nonostante nel processo per mafia in cui Mannino fu imputato, e ancora una volta assolto. A domanda specifica se fosse a conoscenza di interventi, iniziative, favori fatti dall’onorevole Mannino a Cosa Nostra Bursca rispose che non gli risultata nulla.
Giustificò l’improvvisa luce che illuminò i suoi ricordi dicendo che era “un mio difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, li racconto senza nessuna riserva”.
Non giudicò importante raccontare che un ministro della Repubblica fosse stato incaricato dalla mafia di aggiustare un processo e che per questo Riina lo volesse ammazzare. Questa e altre clamorose dimenticanze sono state perdonate. Troppo importante Brusca nella lotta alla mafia per metterlo alla porta per i suoi ricordi fuori tempo massimo.
Altre volte sono state le regole processuali a salvarlo. Come quando fu dichiarata prescritta l’ipotesi che avesse intestato fittiziamente dei beni a dei prestanome. Le regole, appunto, che se ci sono vanno rispettate, anche la foto di un bambino a cavallo muove sentimenti di vendetta. Il piccolo Giuseppe Di Matteo avrebbe compiuto 15 anni una manciata di giorni dopo il suo vile assassinio. Non gli diedero il tempo di festeggiare, chiuso in un pozzo buio.
I suoi carcerieri mangiavano, bevevano, giocavano con i figli in un casolare nelle campagne di San Giuseppe Jato mentre Giuseppe pativa in terre le pene di un inferno che non meritava. Infine, arrivò l’ordine, di ucciderlo.
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