21 Maggio 2017, 19:14
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In Italia, a forza di dare la caccia ai fantasmi e credere ai pentiti pataccari, la giustizia è diventata palindromica. Le sentenze offrono una duplice chiave di lettura. Una prospettiva bifronte che lascia aperta una finestra di indagine e alimenta la perenne sindrome del depistaggio e delle menti raffinatissime.
E soprattutto dà fiato alle fazioni in campo, quelle che urlano “vergogna, vergogna” quando un giudice emette una sentenza che si discosta dalla verità di cui si ritengono depositari. Parenti di vittime di mafia, avvocati di parte civile e persino magistrati, in servizio o ex, tirano dritto per la loro strada in un clima da tifoseria, confortati dai palindromi della giustizia.
In principio fu la sentenza della Corte d’appello presieduta dal Salvatore Scaduti che giudicò il senatore Giulio Andreotti. Prescritto il reato di associazione a delinquere, assolto per quella di stampo mafioso che il codice avrebbe introdotto in tempi più recenti. La linea di demarcazione, prima e dopo il 1980, ha alimentato decenni di dibattito, materia prima preziosa per una filiera sterminata che va dalla saggistica alla cinematografia.
Così sta accadendo dopo il processo Borsellino quater, celebrato dinanzi alla Corte d’assise di Caltanissetta che ha condannato all’ergastolo i boss palermitani Salvo Madonia e Vittorio Tutino. Dieci anni ciascuno per i pentiti “calunniatori” Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Prescritte le bugie di Vincenzo Scarantino. La soglia temporale della punibilità si è abbassata grazie alla concessione dell’attenuante dell’induzione. Il picciotto della popolare borgata della Guadagna ha mentito perché minacciato e picchiato. E via alla corsa per mostrare sul petto la stelletta al merito del “ve l’avevo detto”. Il complotto di Stato sta lì, se allunghi la mano sembra di poterlo toccare. Non importa trovarlo. Basta immaginarne l’esistenza. Le indagini sono doverose, specie alla luce della magra figura rimediata in aula dai poliziotti e dai magistrati che maneggiarono le dichiarazioni di Scarantino senza, nella migliore delle ipotesi, rendersi conto che stavano contribuendo a un clamoroso errore giudiziario. E la polvere sotto il tappeto che diventa urticante. “Nessuno è venuto a chiedere scusa”, ha detto in aula l’avvocato Rosalba Di Gregorio, uno dei legali degli ergastolani scagionati quando il pentito di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, ha mandato in frantumi le certezze di cartapesta.
Scarantino indotto da chi? Il capitolo investigativo in fieri sollecita i palati buoni di coloro che credono al concorso nelle stragi di soggetti esterni a Cosa nostra. Per scoprirlo si dovrà, ci mancherebbe, immergersi ancora una volta nella nebulosa categoria degli apparati di Stato e delle menti raffinatissime. Che tutto sanno e tutto deviano. La ricerca dei mandanti occulti: ecco l’imperativo categorico che ha contribuito a seppellire, sotto le macerie dei processi inutili e ingiusti, anche il dubbio (dubbio, mica certezza) che la storiaccia di Scarantino potesse essere nata nel maleodorante sottoscala di una questura.
Un’ipotesi, quest’ultima, direttamente proporzionale alle responsabilità taciute della magistratura, inquirente e giudicante. Perché se si è trattato di un depistaggio di Stato bisogna ammettere che i depistatori c’avevano visto lungo, infilandosi nelle larghe, larghissime maglie lasciate aperte da altri. Avevano previsto che una folta schiera di magistrati non si sarebbe accorta che tutto ruotava attorno all’improbabile Scarantino. E dopo di lui su altri personaggi come Calogero Pulci e Francesco Andriotta a cui i giudici nisseni non hanno riconosciuto l’attenuante dell’induzione. Insomma, sono stati bugiardi senza se e senza ma. Si sono accodati all’”indotto” Scarantino per monetizzare le bugie. Che era per altro la tesi dell’accusa anche nei confronti del picciotto della Guadagna il quale, secondo i pubblici ministeri, aveva agito per un tornaconto personale.
Volendo concedere a tutti i protagonisti l’attenuante della buona fede si potrebbe ipotizzare che le indagini sulla strage di vai D’Amelio prima e i processi poi siano stati frutto di un abbaglio collettivo. Forse indotto dalla necessità di fornire al più presto un colpevole all’opinione pubblica. I corpi ridotti a brandelli, gli edifici sventrati, i palazzi d’arte sfregiati tracciarono uno scenario di sgomento e dolore che avrebbe prestato il fianco al raccontino di un falso pentito in una stagione permissiva e generosa con i collaboratori di giustizia.
Di occasioni per accorgersi che Scarantino e soci fossero dei pataccari è zeppa la storia processuale. Prima in fase di indagini e, dopo, nel corso dei dibattimenti. Che però, venivano celebrati e si concludevano con ergastoli ingiusti nonostante qualcuno avesse messo i magistrati sul chi va là. E non erano stati solo gli avvocati degli imputati, tacciati troppo in fretta di essersi spinti oltre il diritto di difesa fino a rasentare la contiguità con il demonio. Pure qualche giudice aveva messo per iscritto che bisognava diffidare dei pentiti farlocchi. Per la precisione nelle motivazioni del Borsellino ter, e cioè nell’unico processo rimasto in piedi perché si basava non sulle bugie di Scarantino, ma sulla trasposizione del teorema Buscetta sulle responsabilità della Commissione di Cosa nostra.
Durante la fase delle indagini preliminari dell’inchiesta, mentre era in corso il dibattimento del primo processo, arrivò la ritrattazione di Scarantino ai microfoni televisivi. Era il luglio ’95 e le difese chiesero di portare il pentito in aula. Richiesta respinta e il tutto liquidato come “una debolezza, uno momento di sconforto del collaboratore”. A raccogliere la ritrattazione della ritrattazione fu il pubblico ministero Carmelo Petralia che assieme ad Anna Maria Palma rappresentava l’accusa davanti alla Corte d’assise presieduta da Renato Di Natale. Ed arrivarono i primi tre ergastoli. In appello – il collegio era presieduto da Giovanni Marletta – fu confermato solo quello inflitto a Salvatore Profeta, boss di Santa Maria di Gesù, perché nel frattempo erano arrivate le seconde ritrattazioni di Scarantino, le prime in fase dibattimentale. Per la cronaca, il “fine pena mai” di Profeta è uno dei sei annullati sulla base delle nuove dichiarazioni di Spatuzza. L’ex boss di Brancaccio svelò un’altra falla nel racconto di Scarantino. La mafia, in quel terribile 1992, decideva di alzare l’asticella della sfida allo Stato fino alla follia stragista e lasciava fuori dalle manovre il potente mandamento mafioso dei fratelli Graviano.
Sempre nel processo bis (Corte d’assise di Caltanissetta, presidente Pietro Falcone) si iniziò a parlare dei confronti fra Scarantino e tre collaboratori che la patente di pentito ce l’avevano già in tasca: Salvatore Cancemi, Michelangelo La Barbera e Santino Di Matteo. Perché era stato necessario mettere i pentiti a confronto? C’erano divergenze nelle ricostruzioni? La richiesta di acquisizione dei verbali fu rigettata in nome della riservatezza investigativa. I confronti sarebbero divenuti materia processuale solo due anni dopo. Si seppe allora che Cancemi, faccia a faccia con Scarantino, non era stato tenero. “Ma chi sei?… chi ti ha messo in bocca queste cose”, diceva Cancemi all’uomo che gli stava seduto di fronte, meravigliato che un illustre sconosciuto, o quasi, avesse raccontato di avere partecipato, seppure nell’anticamera della sala riunioni, al vertice in una villa palermitana dove i capimafia decisero di uccidere Paolo Borsellino.
La storia di Scarantino è piena di ritrattazioni. Non solo televisive, visto che a Como, sul finire del processo bis, disse in aula che erano stati gli uomini del gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” guidati da Arnaldo La Barbera a costringerlo a pentirsi. E che dire della scoperta di quei verbali di Scarantino zeppi di annotazioni, come se ci fosse dietro uno studio, una preparazione. Per quelle accuse ai poliziotti Scarantino fu processato e condannato per calunnia a otto anni di carcere.
Si potrebbe obiettare che fin qui si è trattato di critiche mosse dagli avvocati che avevano tutto l’interesse a smontare le accuse. Si dimenava parecchio l’avvocato Di Gregorio, combattiva e senza peli sulla lingua, in difesa di uno degli ergastolani scagionati dopo un decennio e passa di carcere. Quel Gaetano Murana, impiegato della municipalizzata dei rifiuti, a cui Scarantino ha distrutto la vita.
Di parte, dunque non credibile, era stato tacciato anche il racconto di Rosalia Basile, ex moglie di Scaratino. Scrisse alle massime autorità dello Stato per denunciare che il marito era un visionario. È la stessa donna che nel lontano 1995 riferì che il pubblico ministero Anna Palma le avrebbe detto di avvalersi della facoltà di non rispondere oppure di inviare certificato medico falso perché bisognava evitare di mandare in crisi la credibilità del marito con qualche sbavatura o contraddizione. Bugie, solo bugie, ha tuonato il magistrato Palma, che oggi fa l’avvocato generale dello Stato a Palermo, nell’imbarazzante pagina del confronto fra le due donne al Borsellino quater.
La faccenda si complica quando si scopre che a sbugiardare Scarantino erano stati altri magistrati. La sentenza del processo Ter, emessa dalla Corte d’assise allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, era stata lapidaria nel giudizio. Nelle motivazioni, scritte prima della sentenza d’appello del processo bis, si parlava di “dubbia attendibilità”, “parto della fantasia”, “dichiarazioni non genuine perché gravemente sospette di essere state attinte addirittura dalla stampa”. Non erano né in parenti di Scarantino, né i difensori degli imputati a scrivere che “delle dichiarazioni rese da Scarantino non si debba tenere conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio”.
Eppure le valutazioni dei giudice della Corte d’assise non scalfirono le convinzioni dei pubblici ministeri del bis (erano gli stessi del Ter e cioè Antonino Di Matteo e Anna Maria Palma), talmente convinti della graniticità delle prove da proporre appello, seguiti poi dai procuratori generali, contro le assoluzioni di primo grado del bis. E il collegio d’assise di secondo grado, presieduto da Francesco Caruso, accolse la loro tesi e inguaiò Murana che da assolto si ritrovò ergastolano. Un ventennio dopo quella sentenza sarebbe divenuta carta straccia.
Chi ha indotto Scarantino a mentire? Le ombre si concentrano sul questore Arnaldo La Barbera, capo del pool di poliziotti “Falcone e Borsellino”. Alcuni di loro in aula hanno alzato il muro dei “non ricordo”. Su alcuni agenti si è pure indagato. Il giudice che archiviò l’inchiesta scrisse che i pentiti “sfuggenti e ambigui” si erano inventati la storia delle violenze e delle pressioni subite perché “avrebbero avuto interesse nell’individuazione di fonti esterne a cui imputare la verità processuale”. Insomma, se depistaggio c’è stato fu causato da “non meglio identificate posizioni di potere per finalità da individuare”. E siamo al punto di partenza. Alla prospettiva bifronte che lascia aperte le maglie della storia. Avanti, c’è posto per tutti. Fuorché non si parli delle responsabilità di chi indossava la toga e ha preso per oro colato le dichiarazioni di due falsi pentiti – Pulci e Andriotta – e di un improbabile picciotto che si spacciava per boss che accusò degli innocenti perché indotto da qualcuno. Qualcuno che, se davvero sia esistito, è riuscito in tutti questi anni a farla franca mentre si celebravano inutili processi.
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21 Maggio 2017, 19:14