25 Dicembre 2018, 06:40
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Ognuno di noi ha il proprio presepe in testa, o nel cuore. Dentro, insomma. Se lo porta appresso per tutta la vita, a far da riferimento ideale per tutti gli altri presepi che dovesse incontrare, poveri o maestosi, veri o finti, viventi sempre, e a scolpire l’idea elementare della felicità familiare.
Il mio, ad esempio, ha due pezzi di corteccia di sughero accostati sulla loro sommità, a descrivere, sotto, un anfratto a forma di grotta. Negli anni lontani di un’infanzia tanto distante da sembrare quasi non esserci mai stata, quei pezzi di sughero venivano deposti all’angolo di sinistra di un ampio vano della credenza del soggiorno di casa mia, sopra i cassetti. E toglietemi dalla testa che le credenze erano fatte così proprio per accogliere i presepi, a Natale.
In quelle lontane domeniche di Avvento, dove l’attesa era il crescere luminoso del Natale, blu come il suo cielo, rosso come il cuore in festa dei bambini, a casa nostra venivano quasi sempre zio Arturo e Zia Franca, anche con la pioggia battente. Ma era un piacere. Alto, magro, pochi capelli bianchi, guance scavate e mento aguzzo lui; decisamente sovrappeso lei, begli occhi neri e una bocca costantemente incline al sorriso. I due, già anziani, stavano insieme da sempre, che non c’era mai stato né tempo né voglia per occuparsi di altre distrazioni e sbandamenti di sorta. Ad unirli era certo un grande amore, ma anche uno spiccato senso dell’umorismo, a tratti irresistibile.
Lui, mantenendo una rigida serietà da attore consumato, si esibiva, di tanto in tanto, in gustosissime frecciatine ironiche e beffarde per chi capitava sotto tiro, senza esclusione di colpi; lei, ridendo di cuore, si sganasciava e ballonzolava tutta, nella sua pinguedine, contagiando chiunque le stesse accanto.
Credo che in questa sana ilarità del quotidiano avessero trovato il segreto della loro felice convivenza. In quella piovosa domenica pomeriggio dei miei ricordi, prossima al Natale, andava dunque celebrato il rito del Presepe. Zia Franca, per tacito e inveterato accordo, era l’indiscussa protagonista di quel minuscolo cantiere. Noi bambini, spettatori non paganti, ci prestavamo a tratti a operazioni semplici, puntualmente orchestrati dalla capo-cantiere. Zio Arturo, nel frattempo, affrancatosi con un po’ di dispiacere da quel rituale, aveva già tirato fuori la radiolina a transistor, accomodandosi ad un angolo della tavola, sparecchiata da poco. Ne uscivano le voci gracchianti, ma nitide, dei radiocronisti delle partite, con il sottofondo sempre diverso del vociare degli stadi di tutt’Italia. Poi tirava fuori anche la schedina del Totocalcio. Grossi occhiali sulla punta del naso, da solerte radioascoltatore agitava una matita su altre schedine vuote, non giocate, dove segnava i risultati che si avvicendavano. E un occhio era ai risultati, un occhio ai pronostici, in uno strabismo divergente da camaleonte.
Zia Franca non dava per niente conto all’ansia di zio Arturo, che nel frattempo si faceva spasmodica; nulla, neanche uno sguardo per sbaglio verso quelle schedine o verso gli occhi spiritati del trepidante giocatore della Sisal. Con grande cura, sotto i nostri occhi tirava fuori dallo scatolo di cartone, uno per uno, i pastorelli; poi le pecore, poi i suonatori di flauto e le lavandaie. La sua calma serafica contrastava in modo stridente con l’apprensione del coniuge, dal piedino agitato, la matita tamburellante e il volto appiccicato sulla schedina della possibile felicità. E mentre in lui montava un’agitazione elettrica, “… qui ci vorrebbe un lavatoio”, diceva lei, placida, “…una fontana, o un laghetto. Ecco, un laghetto!”, guardando un vecchio specchietto mezzo rovinato, che dopo un po’ veniva ricoperto ai bordi con del muschio.
Noi sistemavamo tutto con attenzione e passione. In quella uggiosa domenica pomeriggio dei miei ricordi, all’ottantaseiesimo del secondo tempo Zio Arturo, silenzioso, leggermente pallido, il piedino nervoso che ticchettava il pavimento, stava puntando al bordo laterale dodici risultati indovinati, che poco prima erano tredici e sarebbe stato davvero un tripudio.
C’era, dunque, aria di miracolo: in quella luminosa domenica pomeriggio dei miei ricordi il grigio scuro stava diventando rosa chiaro. Per lui c’era l’attesa di un desiderio finalmente realizzato, coltivato per lunghi anni di fedeltà calcistica; per noi davanti a quel presepe-cantiere, invece, c’era l’attesa diversa, calda e bambina, di una stella cometa da seguire fino a dove ci avrebbe portato.
In quell’indimenticabile domenica pomeriggio, al novantesimo e passa la voce di Ezio Luzzi, che sembrava provenisse da uno stadio siberiano, in un concitato “scusa Ameri, scusa Ameri!” annunciava il pareggio in extremis dell’Ascoli a Monza, che frenava di colpo il fremito alla gamba dello zio, poiché, come una bolla di sapone che scoppia, cancellava qualunque velleità di vincita. E qui la matita, diventando un dardo formidabile, disegnava una traiettoria inverosimile tra poltrona, parete laterale, soffitto e pavimento, mentre il mucchio di schedine, accartocciato nervosamente, veniva lanciato allo stesso modo verso la radiolina.
E prima ancora che venissero proclamate le cifre spettanti ai dodici e ai tredici, il deluso scommettitore usciva dalla stanza, in un gesto velocissimo, accompagnato da alcuni fonemi, per fortuna incomprensibili agli orecchi dei bambini. Zia Franca rideva, rideva, eccome se rideva! Ma non già di scherno, né di derisione per l’amareggiato giocatore. Piuttosto, in un affettuoso slancio di tenerezza, “…dai, vieni, che il presepe è quasi finito!”, disse a voce alta, invitando anche noi bambini a cercarlo e richiamarlo in soggiorno. Lui non veniva, che la rabbia doveva essere smaltita un bel po’; noi contemplavamo l’esito del nostro lavoro, compiaciuti. “… e il Bambinello?”, qualcuno chiedeva. “Non è ancora il momento” diceva zia Franca, “bisogna aspettare! Bisogna saper aspettare!”.
Il Natale è tutto nella sua attesa. Dopo un po’ faceva capolino la fumosa, delusa vittima della schedina; zia Franca rideva ancora “Eccolo qui, mischino!”. Lui si faceva solenne: “Un giorno…” com’era serio, compunto, austero! “… farò tredici! E me ne andrò alle Hawaii, da solo!”, guardando con aria di finto rimprovero la moglie, che intanto rideva, rideva “… e metterò un gonnellino hawaiano, e una corona di fiori al collo, e ballerò il tamurè!”. E così dicendo cominciava a canticchiare un motivetto insulso, simulando goffamente le movenze sensuali delle danzatrici hawaiane.
Noi eravamo piegati in due dalle risate. “Adesso smettila di dire sciocchezze. Dai, spegniamo le luci, metti la spina del presepe, che abbiamo finito!” E l’oscurarsi della stanza era un tutt’uno con l’illuminarsi di cento lucine in un rettangolo di muschio, casette, recinti e pastorelli, mentre al centro, in una grotta, la luce era più calda e accogliente. Ma bisognava aspettare ancora, non era ancora Natale: l’attesa è un appoggio per la speranza, a patto che sia coltivata e che venga ben riposta. A patto che si segua una stella cometa.
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25 Dicembre 2018, 06:40