08 Marzo 2013, 13:41
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CATANIA – Internet senza mani, perchè basta la voce: il nuovo gadget hi-tech è un paio di occhiali connessi al web, che si indossano e si comandano con un semplice “OK, Google Glass”. Una bacchetta magica vocale che diventa un vero e proprio “sesto senso digitale”: secondo il docente di Sociologia dei Media Digitali all’Università di Catania Davide Bennato segna un cambiamento antropologico.
“E’ una tecnologia sviluppata da Google – spiega il docente – che si presenta sotto forma di uno speciale paio di occhiali in grado di svolgere tre funzioni: registrazione di video e immagini, condivisione del materiale registrato, realtà aumentata. Non sembra un aggeggio particolarmente innovativo, ma se descriviamo come degli strumenti in grado di fare video, foto, riprodurre musica, comunicare e usare pezzetti di web attraverso dei programmini detti “app”, anche gli smartphone non sembrano un cambiamento comunicativo e relazionale importante, mentre – come tutti sanno – lo sono”.
Sul web spopola il video che mostra cosa sono in grado di fare i Google Glass: immagini tanto suggestive, con soggettive arricchite da internet, da aver ispirato perfino divertenti parodie. “I Google Glass – continua Bennato – sono un cambiamento antropologico importante per un motivo specifico: sono il compimento di una profonda mutazione tecno-sociale che aprono scenari dalle conseguenze inattese”.
Il docente di Sociologia dei Media Digitali spiega perchè parla di cambiamento antropologico passando in rassegna i diversi modi di comunicare: “In principio l’uomo comunicava con i suoi simili nel qui e ora: la parola. Poi inventò la scrittura: le parole avevano una esistenza anche oltre chi le aveva dette. Il qui e ora veniva sostituito dallo spostamento nel tempo e nello spazio grazie ad un supporto particolarmente longevo: il libro. I media elettrici – cinema, radio, televisione – avevano ridato spazio alla oralità grazie alla possibilità di essere riprodotti, ma solo per pochi: i mass media. L’oralità elettronica di massa é stata resa possibile da internet e dal web 2.0 che hanno trasformato le interazioni sociali in pezzetti testuali digitali: i social media. Il web partecipativo rapidamente é diventato uno strumento trasportabile che poteva avere la forma di un super-telefono o un computer senza tastiera: i mobile media. Infine sono arrivati degli oggetti che completamente indossabili permettono di avvalersi quell’intricata connessione di contenuti digitali che il web mette a disposizione: i Google Glass. Appunto”.
Per Bennato i Google Glass sono lo specchio di un cambiamento tecno-sociale: “La cultura umana si esprime attraverso testi – scrittura, video, fotografia, suono – e il problema é sempre stato come accedere a questi testi, l’accessiblitá. In origine i testi erano testi scritti, parole che valeva la pena che fossero conservate e tramandate, accedere voleva dire leggere: la biblioteca di Babele. I testi sono stati digitalizzati e sono entrati a far parte di tanti computer collegati tra di loro: non solo parole eterne, anche parole meno eterne che però sono tracce della vita di qualcuno, parole accessibili solo entrando dentro i computer: la realtà virtuale. Le persone non vogliono entrare dentro i computer, é il computer che deve uscire. Come il libro faceva passare dal modo delle storie alla vita reale, le parole digitali hanno bisogno di qualcosa che li facesse switchare: i terminali mobili. I testi digitali non solo sono usciti dai computer, sono entrati a far parte del nostro ambiente, del nostro ecosistema: per accedere serve qualcosa che li riveli dove si nascondono: i Google Glass”.
Gli occhiali 2.0 aprono scenari della conseguenze inattese: “i Google Glass – spiega Bennato – sono frutto del paradigma culturale dei media mobili che estremizzano la proprietà dell’accesso. In pratica dei super smartphone con interfaccia ad occhiale. E ovviamente si portano appresso tutti i problemi dei media mobili. Il primo problema è l’evidente questione della privacy: se puoi registrare, se puoi condividere, se puoi comunicare la società diventa trasparente. Il problema non é la foto che scatti alla vetrina delle scarpe, ma la commessa che distratta sta dall’altra parte. Non é la foto che fai alla tua ragazza, ma il signore che stava dietro e si stava mettendo le dita nel naso”.
“L’altro problema – prosegue Bennato – è che le persone diventano terminali mobili. Con gli smartphone é possibile essere costantemente tracciati: non solo quello che facciamo sul web, ma anche la nostra posizione nello spazio, che sarebbe appannaggio delle compagnie telefoniche, se non fosse che c’è chi decide spontaneamente di dire al mondo dove si trova e cosa sta facendo (penso a Foursquare, Instagram). Con i Google Glass non hai neppure la fatica di digitare testo o password, basta la voce per fare le cose, diventando così una specie di estensione del nostro corpo le cui registrazioni delle nostre emozioni esistono nello spazio della rete. Per intenderci: vista, tatto, olfatto, gusto, udito e Google Glass. Così non sei tu che usi la rete, ma é la rete che usa te per sapere cosa accade nel mondo”.
Per spiegare meglio il suo punto di vista, Bennato usa il cinema: “Chi ricorda lo squid? Era l’aggeggio per fare le registrazioni neurali protagoniste del film della Bigelow “Strange Days”. E “Matrix” dei fratelli Wachosky? L’energia elettrica delle macchine viene presa dall’attività biologica delle persone convinte di vivere invece prigioniere. Ecco: i Google Glass sono squid con cui la rete si nutre di vissuto umano. Detto con una formula: (Bigelow + Wachosky)/McLuhan”.
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08 Marzo 2013, 13:41