Il bluff del boss Graviano | Dialoghi in favore di telecamera - Live Sicilia

Il bluff del boss Graviano | Dialoghi in favore di telecamera

Giuseppe Graviano

Il capomafia di Brancaccio sapeva di essere intercettato, temeva gli spioni, ma parlava senza freni.

È il 2 febbraio 2016. Diciannove giorni dopo che gli investigatori della Dia hanno acceso le microspie nel carcere di Ascoli Piceno. Al minuto 1.50, annotano gli agenti nei brogliacci delle intercettazioni, Giuseppe Graviano se la prende con “scarpa lucida”. È il soprannome che i detenuti hanno affibbiato a un agente della polizia penitenziaria con cui non corre buon sangue.

Il boss di Brancaccio non è uno che le manda a dire. Con l’agente sono pure arrivati allo scontro verbale. Il numero dei libri che si possono tenere in carcere, l’ordine e la pulizia della cella: piccoli screzi nella vita carceraria di un boss stragista detenuto al 41 bis.

“Scarpa lucida”, così racconta Graviano a Umberto Adinolfi, il camorrista con cui condivide l’ora di passeggio, è stato particolarmente impegnato nell’ultimo periodo. Gli operai stanno passando i fili del nuovo impianto di video sorveglianza. Un impianto all’avanguardia che registra anche l’audio. Non come quello vecchio che catturava solo le immagini. Insomma, “sono degli spioni”, dice Graviano ad Adinolfi: “… forse non mi sono spiegato, un mese fa hanno messo queste del primo passeggio, mentre quelle degli altri due passeggi non erano pronte”.

Eppure Graviano, nonostante dalle sue parole emerga la certezza che lo stiano intercettando, nei dodici mesi successivi, fino allo scorso aprile, ha consegnato agli investigatori trentadue lunghe registrazioni riversate nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Migliaia e migliaia di pagine.

Confessioni di un boss che, all’improvviso, smette di temere gli spioni oppure nel teatrino del carcere di Ascoli Piceno si è recitato a soggetto in favore di microspia?

Durante la socialità e l’ora d’aria è emersa l’insanabile contraddizione dei due volti di Graviano. Da una parte il guardingo boss di Brancaccio, l’ergastolano stragista, con il pelo sullo stomaco. Uno che in carcere c’è finito 23 anni fa e capisce di essere spiato. Di più, dice di avere visto con i suoi occhi i tecnici che piazzavano le telecamere. E allora si guarda intorno, scruta lo sguardo degli agenti del Gom che non lo perdono mai di vista, indica al suo compagno l’occhio elettronico che li segue, abbassa il tono della voce, sussurra all’orecchio del suo interlocutore.

Un attimo dopo lo stesso Graviano sbraca. Parla di stragi e favori, di colpi di Stato e tradimenti con un detenuto che fino a poco tempo prima neppure conosceva. E soprattutto racconta la storia di Silvio Berlusconi. Ma proprio tutta, dagli anni Settanta ai giorni nostri, ora che il Cavaliere è il “traditore” che fa marcire in galera gli amici di un tempo.

Graviano non ci sta. Bisogna “farsi la strada” e avvicinare un misterioso personaggio presente alle cene in cui Graviano e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi siglavano inconfessabili accordi in vista della discesa in campo. O Berlusconi si dà una smossa oppure “vi distruggiamo”. “Vi distruggiamo”, il messaggio deve essere chiaro. Né un parola in più, né una parola in meno. E parte la minaccia, perché Graviano “al signor crasto gli faccio fare la mala vecchiaia… 30 anni fa mi sono seduto con te… ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successo una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, Umbè per cosa? Per i soldi…”. Digressione linguistica: il crasto altro non è che il montone, il maschio della pecora che viene castrato; nel dialetto siciliano la parola si usa quando si vuole disprezzare qualcuno che ha fatto il furbo.

Ed è in una delle cene cui fa riferimento Graviano che Berlusconi avrebbe chiesto a Graviano di fare “una bella cosa” per liberarsi dei vecchi politici. La bella cosa, i pm sul punto non hanno dubbi, sarebbero le bombe delle stragi. Si spianava con il sangue la strada a Berlusconi.

E la Trattativa? Come si collocano le parole di Graviano nel contesto del processo in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo. Cambia l’impostazione dell’intero processo. O meglio si porta nel dibattimento di oggi ciò che è già stato affrontato in altri procedimenti giudiziari. Nella stagione delle stragi c’era chi voleva la pace e trattava con i boss e chi sfruttava la potenza di fuoco mafiosa per fare la guerra. L’uomo della pace, secondo i pubblici ministeri, sarebbe stato Calogero Mannino. Ammazzano Salvo Lima e l’ex ministro teme di essere il prossimo nella lista nera di Cosa nostra. A quel punto incarica gli ufficiali del Ros dei carabinieri, guidati dal generale Mario Mori, di trattare per avere salva la pelle. Mannino, colui che avrebbe dato il via alla Trattativa, però è stato assolto in primo grado e sta affrontando l’appello di un processo che doveva essere abbreviato per scelta dell’imputato, ma che è diventato infinito. Anche il generale Mario Mori, nel frattempo, ha incassato l’assoluzione, questa sì definitiva, dall’accusa di avere fatto scappare Bernardo Provenzano quando nel 1995 avrebbe potuto catturarlo nelle campagne di Mezzojuso. Un favore che, nell’impostazione accusatoria, rientrerebbe anch’esso nella Trattativa. Frutto del tradimento di Bernardo Provenzano che offrì la cattura di Totò Riina in cambio del lasciapassare. Anzi, di un “salvacondotto”, volendo ripetere la parola usata dal testimone chiave del processo. E cioè Massimo Ciancimino, tornato in carcere per alcuni candelotti di dinamite di troppo.

Fu lo stesso Ciancimino jr, nel luglio del 2011, a fare ritrovare l’esplosivo nel giardino della sua abitazione. Pochi mesi prima la sua credibilità riceveva una picconata. Era stato, infatti, arrestato per avere calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Fu allora che sostenne di avere ricevuto la dinamite da un personaggio misterioso che voleva convincerlo a interrompere la sua collaborazione con i pm di Palermo. Solo che le telecamere piazzate davanti all’ingresso della sua abitazione smentirono la consegna. Ciancimino disse allora che i candelotti gli erano stati consegnati a Bologna e li aveva trasportati in macchina fino a Palermo. Non lo aveva detto prima per paura. E sempre per paura delle minacce avrebbe mantenuto il silenzio su tutti gli altri particolari della vicenda. Ciancimino ha anche collezionato un’altra condanna per avere calunniato un agente segreto ed è sotto accusa a Caltanissetta per le presunte bugie sul conto di De Gennaro.

C’era, dunque, l’uomo della pace, Calogero Mannino, ma c’è era pure l’uomo della guerra, Silvio Berlusconi. Che, a sentire le parole di Graviano, commissionava le stragi che la mafia eseguiva. Il passato ritorna nelle porte girevoli della cronaca giudiziaria.

Da oltre un ventennio le indagini sui presunti intrecci tra “poteri occulti” e mafia vengono avviate, chiuse, riaperte e nuovamente archiviate. Non servono doti divinatorie per ipotizzare che si tornerà a indagare su Berlusconi. Le registrazioni di Graviano sono già state trasmesse alle Procure di Caltanissetta e Firenze che in passato hanno indagato sul Cavaliere e su Marcello Dell’Utri. Anche Palermo, però, potrebbe muoversi. Perché se nel capoluogo siciliano non sono competenti in materia di stragi, lo sono sulla presunta mafiosità di Berlusconi, anche questa più volte scandagliata senza esito. Per celare l’identità dei due indagati eccellenti i nomi dell’ex premier e di Dell’Utri venivano nascosti dietro le sigle “alfa” e “beta” a Caltanissetta e “Autore 1” e “Autore 2”, a Firenze. Nel 2002 i pm nisseni chiesero l’archiviazione perché ritenevano il rinvio a giudizio di Berlusconi e Dell’Utri “una forzatura arbitraria”. Che dietro le stragi Falcone e Borsellino ci fosse stata “l’istigazione” dei fondatori di Forza Italia erra “un’ipotesi sfornita di aderenza alla successiva realtà”.

Ora, però, c’è Graviano che parla. E si addensano di nuovo le ombre del terzo livello. Quello della politica che ordina e della mafia che esegue in posizione di subalternità. Un rapporto di forza che non convinceva Giovanni Falcone, proprio lui, secondo cui la mafia poteva dialogare con chiunque, ma mai in posizione di subalternità. Con le parole di Graviano la storia e i processi si avvitano su se stessi. Non è passato un solo giorno, dal 1992 a oggi, senza che si siano cercati i mandanti occulti delle stragi. Inchieste aperte e chiuse in giro per l’Italia. Dell’Utri è stato condannato per concorso esterno. I suoi rapporti con la mafia sono stati certificati fino al 1992.

E dopo? Dopo c’è il processo sulla Trattativa perché Dell’Utri, secondo l’accusa, sarebbe subentrato a Vito Ciancimino nel dialogo fra mafiosi e politici. Solo che Berlusconi, racconta ora Graviano, invece che trattare avrebbe chiesto alla mafia di fare “una bella cosa”. Di piazzare bombe in giro per l’Italia.

Così dice Graviano, intercettato per più di un anno fra gennaio 2016 e marzo 2017. Perché proprio lui, perché proprio adesso? Ad onore del vero era strano che finora non lo avessero messo sotto accusa e sotto intercettazione visto che il pentito Gaspare Spatuzza lo ha chiamato in causa anni fa. Fu Spatuzza, infatti, a raccontare del suo incontro con Graviano, nel gennaio ’94, al bar Doney di via Veneto a Roma. Il boss di Brancaccio era molto felice perché grazie a loro – Berlusconi e Dell’Utri – si erano messi il paese nelle mani.

Le parole di Graviano offrono lo sgabello per tentare di risalire, ancora una volta, fino al terzo livello, per alimentare una stagione infinita di processi che partono e partiranno da un postulato – il patto fra boss e uomini delle istituzioni – per poi mettersi alla ricerca delle prove. Lo dice lo stesso Graviano durante le passeggiate carcerarie: “Vanno cercando, non hanno niente nel processo Trattativa Stato-mafia… e stanno cercando … le carte”. Quelle carte, montagne di carte, che ora il boss di Brancaccio mette sul piatto e che hanno un effetto immediato e certo. Quello di ingolfare il processo sulla Trattativa. Ci vorranno cinque mesi prima che i periti trascrivano i trentadue dialoghi fra Graviano e Adinolfi che guardano la tivvù e commentano ogni cosa. Dalle partite di calcio alle iniziative politiche del ministro Maria Elena Boschi, dall’intervista del figlio di Totò Riina nel salotto di Porta a Porta al cibo che hanno mangiato in carcere. E poi ci sono i commenti sugli atti dei processi in cui Graviano è stato già giudicato colpevole.

Faldoni su faldoni che si aggiungono a quelli già depositati nei mesi scorsi quando Totò Riina si confidava, anticipando quando sarebbe avvenuto fra Graviano e Adinolfi – con Alberto Lorusso. Difficile capire cosa resti di processualmente rilevante delle centinaia di ore di intercettazioni del padrino corleonese, al netto dell’allarme attentato ai danni del pubblico ministero Antonino Di Matteo e dei titoloni sui giornali.

Carte su carte, alcune cercate tra le pieghe della storia italiana per formulare l’ipotesi che il dialogo segreto con i boss non fu portato avanti solo da Mario Mori per conto di politici e governanti, ma anche dagli uomini dei servizi segreti. C’era una strategia della tensione molto più complessiva che affondava le radici nella destra eversiva e nella massoneria. Verbali, note informative, trascrizioni e interrogatori. Il presidente della Corte d’Assise, Alfredo Montalto, per mestiere è abituato a leggere. Chissà quale sarà le reazione dei giudici popolari di fronte al tentativo di riscrivere la storia e alle parole di Graviano che dice tutto e il contrario di tutto. Prima sostiene che Berlusconi gli chiese il favore della “bella cosa” e poi dice di essere non sapere nulla delle stragi. “Innocente” è l’aggettivo che Graviano ripete una trentina di volte parlando di se stesso.

C’è una possibile terza interpretazione per le parole di Graviano. Un grande bluff, una confessione in diretta oppure una strategia per ottenere qualcosa. Una trattativa nella Trattativa nella speranza di strappare una qualche deroga alla durezza carceraria.

Il carcere duro è insopportabile – il boss di Brancaccio – ha la bava alla bocca quando parla del 41 bis. Davanti ai pm Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, che gli leggevano ampi stralci delle sue conversazioni, Graviano si è avvalso della facoltà di non rispondere. Prima di congedarsi ha detto che “… quando sarò in condizioni sarò io stesso a cercarvi e a chiarire alcune cose che mi avete detto”. I magistrati riscontrano un’apertura nelle sue parole. Si scoprirà presto quando Graviano sarà citato in Corte d’assise per rispondere alle domande della pubblica accusa. Lo aveva giù fatto qualche anno fa a Firenze per dire che Spatuzza nulla sapeva e nei suoi racconti si era limitato a “colorire” ciò che lui stesso, Graviano, gli aveva riferito commentando la storia de suoi processo. Un concetto che ripete adesso. Al momento agli atti ci sono migliaia di conversazioni e il dubbio che Graviano si sia preso gioco di tutti, recitando una parte. I pubblici ministeri credono alla genuinità del suo racconto. Un boss, dicono, non avrebbe mai parlato di cose intime come la nascita di un figlio grazie alla compiacenza di qualcuno che avrebbe aperto le porte del carcere alla moglie. Si esclude, a priori, che Graviano possa avere riferito l’episodio affinché Adinolfi avesse prova della sua potenza. I pm sono convinti che il boss di Brancaccio abbia detto la verità perché, una volta appreso delle intercettazioni, si rimangia tutto e conferma la storia della provetta. La verità, però, è che quel figlio è nato grazie ad un rapporto sessuale come lui stesso diceva alla moglie durante un precedente colloquio: “La verità la sappiamo noi”.

Una provetta, un figlio, un rapporto sessuale: un unico riscontro, se tale sia davvero, a fronte di una raffica di affermazioni può bastare per affermare la genuinità del racconto di Graviano sulle stragi? Una riposta potrebbe arrivare dal minuto 07.35 della registrazione del 29 marzo scorso, una delle ultime. Stavolta a parlare è Umberto Adinolfi. L’interrogatorio è già avvenuto e il camorrista dice: “Perché noi sconoscevamo che eravamo intercettati… siccome questi hanno intercettato tutto quello che abbiamo detto, noi ricordandoci più o meno quello che ci possiamo ricordare… tutto quello che abbiamo detto… cioè alla fine non è stato un fatto negativo… negativo perché ci hanno intercettato… è sempre un fastidio… ma noi non lo sapevamo. Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano… la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto… delle chiacchiere che abbiamo fatto”. Perché Adinolfi e Graviano si preoccupano del giudizio che gli investigatori hanno delle loro conversazioni?

Intanto le intercettazioni sono state depositate. Diventano materia processuale e se, come emergerebbe, Graviano sapeva di essere spiato, potrebbero trasformarsi in duemila pagine di potenziali e involontari pizzini. Graviano dice e non dice, smozzica le parole, pronuncia frasi opache e dal significato obliquo che qualcuno all’esterno potrebbe avere colto meglio e prima degli investigatori. Si rischia la beffa, molto più di quando il figlio di Riina presentò il suo libro seduto nel salotto di “Porta a Porta”. Apriti cielo: si doveva impedire a Salvuccio Riina di lanciare messaggi. C’era pure Graviano quella sera davanti al televisore. Il boss di Brancaccio vedeva nell’ospitata di Riina jr nel programma di Bruno Vespa un’operazione di marketing “per smuovere un po’ la situazione” perché “Porta a Porta si stava addormentando”. Chissà se ha avuto l’opportunità di guardare in tv i servizi sulle sue intercettazioni e sperare che qualcuno abbia detto: messaggio ricevuto.


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