Gregotti, lo Zen e l’arte di arrangiarsi

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13 Marzo 2009, 10:39

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Ha cambiato nome lo Zen 2, adesso si chiama quartiere San Filippo Neri, ma non molto altro è cambiato. Per chi è venuto qui venti o dieci o cinque anni fa, la Zona Espansione Nord al primo impatto offre sempre lo stesso paesaggio: carcasse di auto abbandonate, piccoli traffici, panni stesi alle finestre, un’umanità formicolante nel dedalo delle insule, come vengono chiamati gli alveari sui quali si affacciano gli appartamenti.

No, non è vero. Qualcosa di diverso c’è: l’infilata di antenne paraboliche affacciate alle finestre, tutte puntate verso nord. “Queste paraboliche? L’ultimo regalo dei politici”, spiega Fabrizio Ferrandelli, consigliere comunale d’opposizione. “A ogni elezione si presentavano qui a raccogliere voti, in cambio davano antenne paraboliche. Arrivavano con i furgoni pieni. Basta guardare le marche sulle padelle per risalire al nome di chi le ha regalate”.

Zen, o per la precisione Zen 2, sotto il cielo ampio e attraversato da nuvole veloci della Piana dei Colli di Palermo, dove nel Settecento le famiglie della migliore nobiltà siciliana vennero a costruire le proprie ville prima di affondare nei debiti e nei pignoramenti. Forse non a caso, quasi per contrappasso, quarant’anni fa l’Istituto autonomo case popolari individuò quest’ampia zona pianeggiante per costruire nuovi alloggi destinati agli sfrattati da casupole e catoj del centro storico. Risale al 1969 il concorso per la progettazione dello Zen 2, vinto dallo studio milanese di Vittorio Gregotti.

Una cosa hanno imparato i diecimila abitanti dello Zen: dog eats dog, cane mangia cane. Fin dagli anni Ottanta, quando le case ancora non collaudate, senza acqua né luce, furono occupate abusivamente. Francesco Dominici, muratore disoccupato, e sua moglie Vincenza allo Zen ci sono nati, si sono conosciuti, hanno avuto un figlio. Stavano all’insula 3, quando sono cominciati i lavori di ristrutturazione, hanno conquistato parte dell’ingresso di uno dei padiglioni, hanno tirato su una parete e un pavimento: per tre mesi hanno abitato qui, prima di andare a vivere in un palazzo del centro storico, abitato dai senza casa dello Zen, per un percorso inverso che riporta nel cuore di Palermo i figli di chi se ne andò vent’anni fa. Per alzare un muro abusivo, per chiudere uno spazio comune occorre prestigio personale o il pagamento di una licenza – da due a diecimila euro a seconda dei metri quadrati – al boss dell’insula. In un’insula, gli inquilini si sono organizzati: pagano una retta condominiale per le pulizie, per i lavori di allaccio abusivo alla conduttura dell’acquedotto, per la piccola manutenzione, con tanto di regolare ricevuta che poi presentano al Comune. Il Comune attraverso la sua municipalizzata, l’Amap, nega il regolare contratto di fornitura d’acqua perché i residenti sono occupanti abusivi, ma a volte rimborsa i costi dell’acqua ottenuta fuori da ogni regola. Leggi dello Zen: l’alloggio occupato può essere venduto, ceduto, acquistato. O meglio: il diritto all’abuso può essere venduto, ceduto, acquistato.

Per due anni Ferdinando Fava, ricercatore alla Scuola francese di alti studi di scienze sociali ha vissuto allo Zen. Ne ha tirato fuori un libro pubblicato prima in Francia e dopo in Italia: Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione. Più di trecento pagine ricche di analisi e testimonianze, col tentativo di sfuggire alla solita rappresentazione.

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Questura e carabinieri descrivono lo Zen come un luogo abitato da fantasmi, latitanti imprendibili, protetti dalla topografia stessa, da una rete di complicità che un tempo faceva capo a Totò Lo Piccolo, il boss di San Lorenzo arrestato con suo figlio Sandro a novembre del 2007.

Al centro di una strada un uomo vende i biglietti della riffa: un euro a cedola, se ne possono vincere duecento. Antonino Stagno per ventisette anni ha lavorato in un’azienda metalmeccanica, quando la fabbrica ha chiuso è rimasto disoccupato: “Che dovevo fare? Avevo 44 anni, nessuno mi pigliava. Dovevo mettermi a rubare? Faccio la lotteria”. Molti campano così, allo Zen. Le donne non lavorano, stanno a casa, si alzano tardi, restano in pigiama, spesso i figli vengono travolti dall’indolenza materna, abbandonano la scuola, prendono la via della strada. Dai garage, dai sottoscala chiusi con grate metalliche arriva l’abbaiare dei cani: rottweiler, pit bull, esemplari da combattimento. Vengono addestrati ad attaccare: dog eats dog.

È il quartiere dei senza qualcosa. Senza casa, senza tetto, senza legge, senza diritti. Bice Mortillaro Salatiello è da anni su questa trincea, con il suo Laboratorio Zen Insieme, l’unico luogo di aggregazione. Sempre alla prese con pochi soldi, fondi pubblici tagliati e ridotti: “Ma se parli con quelli che abitano qui, non sentirai dire che il quartiere deve essere raso al suolo come le vele di Secondigliano. La gente vuole le cose che mancano, i servizi, i negozi, un mercato, le scuole”. Bice ci ha sempre creduto, a ottantun anni ancora ci crede: racconta di iniziative piccole, quasi invisibili dentro lo sfascio dello Zen. In via Libertà, nella strada dello shopping, una signora esce dalla sua Smart. Porta a tracolla una borsa con la scritta LabZen2. È stata tagliata, cucita e confezionata nel quartiere dove la signora della Smart non ha mai messo piede. L’idea è di Maruzza Battaglia, amica di Bice. Ha convinto una stilista a preparare un prototipo, ha coinvolto Rosi, Sandra e Carmela, tutte e tre dello Zen che hanno lavorato in casa. Le prime sessanta borse sono andate a ruba, adesso Maruzza vorrebbe mettere in piedi una vera produzione. Non è facile. Qualcuna delle sarte si è tirata indietro, spiegando che il marito non voleva: l’indipendenza economica delle mogli crea problemi in famiglia. L’antropologia dell’esclusione, come la definisce Fava, produce identità forti o ambigue. Maria Grazia Gargano è nata in Francia da padre palermitano. È approdata allo Zen con due figlie. Sapeva che qui si poteva avere un casa. Una ragazza dello Zen ha meno possibilità di trovare lavoro, di uscire indenne dal quartiere. Una delle figlie di Maria Grazia quando era adolescente, si vergognava di ammettere che abitava lì: dai suoi amici si faceva lasciare in via Lanza di Scalea, il vialone che separa lo Zen dai comprensori di ville dei nuovi ricchi. Preferiva fare un chilometro a piedi di notte, piuttosto che confessare di essere zeniota. Così si definiscono gli abitanti dello zen. Quasi fossero una tribù esotica, buona per gli studi di antropologi e per articoli di giornalisti.

*tratto da Corriere magazine del 12 marzo 2009

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13 Marzo 2009, 10:39

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