11 Gennaio 2015, 21:37
7 min di lettura
Se dobbiamo dirci proprio tutto, se dobbiamo dire le cose come stanno, se dobbiamo dirle come sarebbe piaciuto a lui, senza ipocrisie e infingimenti, Francesco era un gran figlio di buona donna. Geniale, lui che – “come Totò Riina”, gli dicevo io – non faceva mistero di avere “poca scuola”, non inventandosi lauree che non aveva e spiegando senza falsa modestia che era stato costretto dalla vita, proprio come quegli studenti un po’ scavezzacollo però intelligentissimi, a imparare tutto quello che poteva mentre i prof spiegavano. Di studiare non ne voleva, ma lui era uno di quei grandi giornalisti che non sanno tutto, ma sanno chi sa. Genialissimo, se si potesse usare un superlativo così, ma anche un grande, grandissimo figlio di buona donna. Ha inventato un modo alternativo di fare giornalismo a Palermo e in Sicilia. Ha dimostrato che si poteva. Si è infilato negli spazi lasciati liberi dagli altri, ha coltivato una generazione di ragazzi in cui ha creduto, che ha messo in regola, ai quali ha dato un lavoro e uno stipendio e – ne siamo certi – un futuro anche senza di lui.
“S” è stata non un’idea ma un’ideona. Vendere il giornale a chi normalmente non lo compra: come? Semplicemente pubblicando quello che il pubblico smisurato dei “non-lettori” va cercando, atti e intercettazioni e interrogatori integrali, che a loro volta producevano altri atti e interrogatori e intercettazioni. Perché ormai a Palermo non c’è mafioso, di rango, di medio calibro o quaquaraquà, che non legga S e non ne parli, nei suoi colloqui intercettati, fornendo involontariamente – in un circolo in fondo virtuoso per gli investigatori – sempre nuovi spunti a chi indaga. Francesco ha inventato pure un’informazione online documentata, tempestiva, puntuale e senza eccessi, ma anche senza forme pelose di rispetto o di esasperata aggressività. È riuscito a ritagliare al suo manipolo di giovani leve un ruolo e un rilievo di livello nazionale. E tutto questo lasciando la comoda poltrona di via Lincoln, dove sarebbe potuto invecchiare – volendo – anche impigrendosi. La vita non gli ha lasciato il tempo di invecchiare e Franco, come lo chiamava il maestro Armando Vaccarella, non si è fatto impigrire ma l’ha vissuta pienamente, fino in fondo, non esitando a rimettersi in gioco, quando aveva appena superato i 40, lui che a 30 era diventato qualcuno, viceredattore capo di un quotidiano, il Giornale di Sicilia, che poi ha lasciato senza troppi rimorsi.
Francesco era così. Il Pupetto, come lo chiamava Peppino Sottile, il Pupo che riusciva a scrivere peste e corna delle persone e poi a prendere le stesse persone bellamente per il sedere, ad ascoltarle con quella faccia da impunito, impenetrabile e pronta a scatasciarsi dalle risate un attimo dopo che le sue vittime di turno avevano lasciato il suo cospetto. E mi piacerebbe sapere cosa ne pensa lui, Ciccio, dei tanti messaggi di cordoglio che oggi gli arrivano da tutte le parti. Mi ricordo di Turi Lombardo, un nome che oggi ai giovani cronisti nulla o poco dice: quando, al culmine della sua potenza (o vanagloria), Turi veniva in redazione, Franco era pronto a seminare il panico: “Accuramu ‘e portafuogghi”. Turi se la rideva, perché forse, in fondo in fondo, lo sapeva pure lui, che i socialisti erano veramente ladroni.
Ma all’ironia e alle battute di Francesco era difficile resistere. Ne sa bene qualcosa chi scrive: una volta dei poliziotti non proprio professionali scambiarono le nostre voci e i nostri numeri, attribuirono a me una conversazione fra lui e il suddetto Turi. Rischiai di passare i guai, solo solo per il numero di parolacce e di risate e di insulti scherzosi ai fattorini che i trascrittori dovettero annotare, attribuendoli a me, per una volta assolutamente innocente. Geniale, Francesco: capace di passare dalla politica comunale a quella regionale, dalla bianca alla nera e di scrivere estemporaneamente, alle undici di sera, 100 righe sull’omicidio di Ignazio Salvo, misconosciuto e semi-ignorato, dai perfezionisti delle trattative a tutti i costi, sebbene fosse stato un omicidio di alta, altissima mafia. Capace di trovare notizie su notizie, Ciccio, di assupparsi fior di cazziatoni da Sottile, decibel e decibel di lezioni gratuite di vita e di giornalismo: senza libri, senza testi da studiare e professori da pagare per fare la formazione.
Mitico, Ciccio, capace di allevare fior di cronisti come Enrico del Mercato, oggi caporedattore a Repubblica, e Emanuele Lauria, non a caso grandissima firma del quotidiano romano, che credo gli debbano se non tutto, molto. Capace di capire che a Palermo c’è un signor cronista di giudiziaria che si chiama Riccardo Lo Verso e a portarlo dalla sua parte. E a “tirarsi” altri ragazzi di enorme valore come Salvo Toscano, Claudio Reale, Roberto Benigno, Roberto Puglisi, Eliana Marino. A coltivare il talento di Accursio Sabella. A portare a loro il suo mitico grido (“Polpastrelli!”) quando c’era qualcosa di importante su cui lanciarsi o l’altro, irridente (“Fermate le rotative!”), quando qualche politico gli proponeva una notizia che era una mezza cagata. Bello e possibile, amatissimo dalle donne, mentre lavorava al Giornale di Sicilia Ciccio tesseva la sua tela, costruiva quel piccolo grande mondo che è il gruppo I love Sicilia-Livesicilia, ma riusciva a rispondere al telefono imitando la voce della segretaria del direttore, ingannando chiunque, o a mettersi con tono serio, come se leggesse un telegiornale, a declamare la notizia che “il ministero dei Beni culturali aveva stanziato 13 miliardi di lire per il restauro” … e lì faceva il nome di una collega di una certa età, che a Franco, Francesco o Ciccio voleva comunque un bene dell’anima.
Era una bella cronaca, quella. C’era il taciturno Nino Giaramidaro, c’era Gianni Daniele, cronista nell’anima e principe dei Silenziosi e degli Oscuri, che il destino ha voluto che se ne andasse una settimana prima di Ciccio: ma Giannuzzo, che abbiamo seppellito in pochi, qualche giorno fa, di anni ne aveva 86, Francesco qualcuno meno; sì, giusto qualche annetto di meno. C’erano un vice come Fabrizio Lentini e una signora cronista come Delia Parrinello e biondini di nome Francesco Massaro e Marco Romano, c’era un giovane praticante come Giorgio Mulè, che con Franco vedemmo più di una volta umile, a capo chino, di fronte a Sottile, per una lezione di giornalismo verde ante litteram (“Le tue sono braccia sottratte all’agricoltura”), per poi vederlo assurgere ai livelli più alti del giornalismo nazionale. Le cazziate, anche feroci, evidentemente servono a qualcosa. Pure Ciccio non era mai pago, voleva sempre di più, condivideva con Gery Palazzotto e Ciccio Badalamenti momenti drammatici e anche di riso, con scoppi di risa che a qualcuno davano fastidio, ma che gettavano una luce di umanità negli stanzoni allora ancora affollati di via Lincoln.
Geniale, ma grande figlio di buona donna. Come quando ci affidarono un progetto, a me, lui e Piero Cascio, la realizzazione di un contatto con i lettori e di un magazine settimanale, “Di tutto & Tv”, da allegare al giornale. Bene, lui riuscì a non fare mai mezza telefonata né mezzo titolo o pezzo di quel magazine: non faceva assolutamente nulla, però quel nulla lo faceva così bene che era difficile rimproverargli qualcosa. Al punto che sembrava che facesse tutto lui. Ci siamo anche divisi, lungo la strada. Questioni sindacali feroci, dirompenti, fronti diametralmente opposti. Pensammo tutti che stesse sulle posizioni di editori e direttori per motivi di tornaconto personale. Invece forse era solo per una questione di libertà personale che noi non riuscivamo a capire: perché non c’era logica, nel far fallire gli scioperi e poi prendere un’aspettativa dietro l’altra, fino a dimettersi. Non si era mai dimesso nessuno, che non avesse qualcosa di sicuro dietro l’angolo. Invece lo fecero lui, Gery e un altro collega, pure lui portato in alto, in alto, in alto, per poi essere lasciato cadere rovinosamente, senza paracadute.
Oggi di cotanta speme cosa ci resta? Un mondo nuovo, ci resta. Un mondo che speriamo che il vecchio maestro Peppino sappia far crescere ancora, traghettando “Live” in mano ai giovani leoni di via Rosolino Pilo. Con la speranza che gli altri capiscano che non era Francesco, Franco, Ciccio o il Pupetto, l’eretico e il visionario, ma che sono ciechi e sordi quelli che non capiscono che solo chi rischia vince. E lui ha vinto, anche se se ne è andato a 49 anni, lasciandoci tutti un po’ più soli.
Pubblicato il
11 Gennaio 2015, 21:37