04 Marzo 2009, 10:04
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“Cosa direi al Presidente della Repubblica se lo incontrassi? Gli chiederei la grazia. Gli spiegherei che io e mia moglie abbiamo già scontato ventisette anni di galera accanto a nostro figlio autistico. Sono sicuro che mi capirebbe”
Calogero Crapanzano ha i calzini bianchi, gli occhiali, uno sguardo mite, i capelli spettinati e qualcosa nel cervello, come rammendo per un intervento subito in occasione di un aneurisma. Ha una carpetta verde che contiene tutta la sua vita. Ci sono le perizie, i certificati, i documenti. Ci sono le foto di Angelo, il figlio ventisettenne che amava e che ha ucciso “in un giorno insopportabile di caldo”. Angelo Crapanzano soffriva di una grave forma d’autismo. Era aggressivo, violento, incontrollabile. Il 23 giugno del 2007 – non il 22, come riportano i giornali – Calogero, prostrato da anni di complicata assistenza, non ha retto più. Ha portato il suo ragazzi fuori per una passeggiata. L’ha strangolato e si è consegnato ai carabinieri. La giustizia degli uomini, in appello, ha confermato una condanna a nove anni e quattro mesi. La giustizia di Dio è una carezza impalpabile, un miraggio sullo sfondo del deserto. Chi resta? “Io non posso andare in carcere. Sto male – sussurra Calogero -. Se la condanna verrà confermata in Cassazione, chiederò la grazia al presidente Napolitano. Ha un cuore di padre. Capirà il mio strazio”.
L’avvocato Giuseppe Sciarrotta allarga le braccia. Il destino del suo cliente è appeso a un filo. L’ex maestro di scuola Calogero, nello studio del suo legale, parla e si sfoga. Tira via dalla carpettina verde pezzi di carta che contengono date e ricordi. Sono i frammenti di un’esistenza disperata, trascorsa a guinzaglio di un figlio, in assenza di cure e strutture adeguate. Una montagna di singhiozzi che è franata quel 23 giugno. Il signor Crapanzano rammenta ogni passaggio. La scena è sempre presente come una tremenda trafittura. “Angelo stava smontando casa, come al solito. Ha tentato di mordere me e mia moglie. La sua violenza era incontenibile. Siamo usciti per una passeggiata. A Gibilrossa, i miei nervi hanno ceduto. L’ho strangolato col cavo per il traino della macchina. Tutto è stato improvvisamente troppo. Ventisette anni senza un attimo di riposo o di tregua. Ventisette anni senza respirare”. Ventisette anni di calvario, nelle anticamere dei medici che prescrivevano psicofarmaci e facevano la faccia comprensiva. Nulla di più. Ventisette anni di pillole scritte su foglietti ormai sbiaditi. La storia di Angelo, di suo padre Calogero e di sua madre Rosalia è racchiusa, coagulata, nella carpetta verde con l’elastico. Il maestro in pensione accarezza la carta. Sputa il rospo nero della rabbia: “Al processo quasi non mi è stato permesso di parlare. Avrei voluto raccontare quello che si prova nelle mie condizioni. Ho avuto fiducia nella giustizia. Ho rifiutato decine di interviste per non mettere in imbarazzo i magistrati. Ora, non ho più fiducia”.
“Aspetteremo le motivazioni della sentenza e ricorreremo in Cassazione – spiega l’avvocato Sciarrotta -. Avevamo insistito sulla temporanea incapacità di intendere e di volere del mio cliente. Non siamo stati ascoltati”.
“Mia moglie è distrutta – dice il maestro Crapanzano – un giorno mi perdona, un giorno mi accusa. I momenti più sereni della mia vita li ho avuti in dono con l’aneurisma, so che è paradossale. Con l’operazione e il ricovero sono stato costretto ad andare via temporaneamente da casa. Mi sono riposato”. La bocca di Calogero assume una piega amarissima: “Mio figlio era un bel ragazzo. Alle volte, mentre passeggiavamo, le ragazze lo guardavano ammirate. E io provavo rabbia. Mi chiedevo: perché non può ricambiare quelle occhiate!? In casa era difficile da controllare, smontava tutto, rompeva tutto. Andava sorvegliato ogni attimo e si rischiava lo scontro fisico. Solo io e mia moglie sappiamo quello che abbiamo passato. Non esiste una risposta pubblica soddisfacente a una malattia tanto grave. Siamo stati abbandonati al nostro destino. Ventisette anni di carcere… Vogliono che ne sconti ancora nove? Ma io in cella non resisterò. Ho il cuore fragile, ho la testa che mi scoppia. Spesso, penso al suicidio. Sono stato all’Ucciardone. Mi sorvegliavano a vista”. Nella carpetta sono custodite anche parole di solidarietà. Lettere scritte da altri genitori. Il ritornello del dolore è: “Pure noi viviamo giorno e notte con nostro figlio malato. Possiamo capire”.
E ci sono le immagini di un tempo andato, talmente lontano da somigliare quasi a un’altra vita. Angelo e Calogero insieme, nella foto ricordo di una classe delle elementari. Ancora insieme in pineta. Il padre tiene in braccio il figlio. Angelo ha un paio d’occhi da creatura lunare. Dolcissimi. Distanti. Calogero sorride.
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04 Marzo 2009, 10:04