24 Novembre 2020, 17:14
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Ho visto camminare per strada Biagio Siciliano, era pressapoco lo stesso di quel giorno alla fermata, o di quell’altro giorno: quando, sbagliando, si era seduto in classe con noi. E non aveva spiccicato una parola. Ma sempre lo stesso era, perché da ragazzi siamo in miniatura ciò che diventeremo, il pezzo piccolo della matrioska che verrà sovrastato dagli altri. Aveva la faccia da adulto, che ha sempre avuto, Biagio, in una vita da bambino. Una bella faccia da ragazzino responsabile, nonostante l’età, un po’ come i lineamenti severi e fanciulleschi dello Zio Bergomi nel Mundial di Spagna.
Era in giro serenamente per le compere di Natale, perché nel mondo parallelo e sognato non c’è dolore, dunque non c’è nemmeno la pandemia. Aveva figli e moglie, pacchetti e forse un gatto sulla spalla, un discendente di Raimondo il cucciolo che vegliò il suo amico fino a quando fu possibile. Lui non poteva vedermi, immerso in una specie di atmosfera lucente e separata, ma io vedevo lui. E ne avevo, per lui e per me, una sensazione di risarcimento, come se tutte le lacrime fossero scomparse all’improvviso, come se avessimo scoperto, di colpo, che l’estate – l’estate eterna dell’adolescenza, pure d’inverno, l’estate delle rincorse, delle partite di calcio e dell’amore tra i cortili di Mondello – non era e non è mai finita.
Ho visto Giuditta Milella camminare per strada, sul lato opposto dello stesso Natale. Anche lei era in compagnia di qualcuno che la amava, però non ricordo chi. Anche lei incedeva nella luce e aveva lo stesso sorriso della foto. E ci perdevamo tutti in quel sorriso bambino, con la promessa che non sarebbe cresciuto, che la matrioska sarebbe stata completata, ma quel sorriso sarebbe rimasto fedele a se stesso. Giuditta portava una lavagna sotto il braccio: l’avevo notata nella sua stanza. Lì, sull’anima nera della superficie, con un gesso bianco, la ragazza che non sapeva che quel giorno avrebbe cominciato a dire addio aveva scritto le sue ultime parole. I suoi appunti in memoria. E poi mi pare di ricordare che pure lei vedesse me. E che mi sorridesse, in un contatto ravvicinato tra la precarietà e tutte le risposte.
“La Tv in soggiorno trasmetteva l’accaduto: ‘Strage al liceo ‘Meli’. Una macchina di scorta ai giudici Guarnotta e Borsellino è piombata sulla fermata, lì dove i ragazzi prendono l’autobus’. In quell’istante, centinaia di genitori impazzirono di paura. Si precipitarono a piazza Croci, con qualunque mezzo o indumento. Volevano riabbracciare i figli. A due famiglie non fu concesso di ricongiungersi. Nicola Siciliano, operaio della Keller, rintracciò le spoglie di Biagio, quattordicenne, della quarta D, in ospedale. Lo pianse con sua moglie, Maria Stella. Carlo Milella, questore della polizia, pregò con Francesca per la guarigione di Maria Giuditta, diciassettenne della terza B. ‘Titta’, come la chiamavano i genitori, spirò dopo una settimana”.
Ho visto Biagio e Giuditta camminare per strada, con il corpo degli adulti che non sono diventati, con il sorriso degli adolescenti che saranno per sempre. Come se in un oggi di trentacinque anni fa non ci fosse mai stato l’incidente del ‘Meli’ in quel 25 novembre del 1985. Come se fossero tornati a casa, indenni, mentre le auto sfioravano senza danno la fermata di piazza Croci. A casa, da mamma e papà.
Li ho visti, attraverso innumerevoli sere, nel corso dei giorni, con la pioggia e col sole, mentre crescevano, con il diritto e la gioia di crescere, senza fili spezzati d’improvviso e intorno un mare di rimpianti. Ho visto Biagio e Giuditta, nostri cari compagni di banco, vivere la vita meravigliosa.
La vita perfetta che nessuno di noi, ragazzi ormai invisibili di quel tempo, ha vissuto.
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24 Novembre 2020, 17:14