05 Maggio 2016, 17:39
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PALERMO – Sul banco dei testimoni del processo sulla Trattativa Stato-mafia sale Francesco La Licata. Esperto cronista giudiziario, uno che di mafia si occupa da decenni, a La Licata i pm chiedono di raccontare la stagione delle stragi e provano a puntellare la credibilità di Massimo Ciancimino. Nel primo caso, dalla testimonianza del cronista davanti ai giudici della Corte d’assise, emerge la convinzione, da lui raccolta fra i magistrati di allora – Giovanni Falcone per primo – che la mafia aveva avviato la strategia della tensione culminata negli eccidi di Capaci e via D’Amelio. “La mafia era la manodopera, ma il progetto di farlo fuori – così Falcone diceva all’amico La Licata – era di un’altra entità”.
Sull’attendibilità di Ciancimino, invece, anche La Licata solleva più di qualche perplessità. Specie quando gli parlava del signor Franco, il fantomatico spione dei servizi segreti e anima nera di quegli anni. E così quando Ciancimino jr gli chiese di inserire nel libro “Don Vito”, pubblicato nel 2010, che il signor Franco era l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, La Licata e l’editore decisero che era meglio non rischiare. Mancavano i riscontri.
“Quando vengono colpite tre importante città italiane – racconta La Licata riferendosi alle stragi in Continente – capiamo che la mafia si sta organizzando per la battaglia con lo Stato, per un conflitto con i vertici dello Stato. Era un fatto politico, non agiva solo la mafia, c’era qualche altro interesse. La direzione investigativa antimafia ipotizzò un colpo di Stato”.
Tra i primi a capire a cosa si andava incontro fu Gabriele Chelazzi, allora vice procuratore nazionale antimafia: “Imboccò la pista del contatto fra Stato e antistato – racconta La Licata che anche di Chelazzi era diventato amico -, in particolare per la questione del 41 bis. Chelazzi andò alla Commissione parlamentare antimafia ma non riuscì a dire tutto quello che voleva, la seduta fu aggiornata ma non lo convocarono mai più. Disse che c’erano argomenti – prosegue il giornalista – che non potevano essere portati avanti dal magistrato, ci voleva il Parlamento. Chelazzi era amareggiato, sapeva che non lo avrebbero fatto andare avanti”.
Ma quali erano i sospetti del magistrato? La Licata li spiega così: “Seguivano una traccia a partire dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca che aveva tirato fuori la storia del papello. Il comando generale dell’Arma dei carabinieri disse che non era vero niente”. Ed ancora: “L’intervento della Curia di Trapani in favore dei detenuti al 41 bis. Chelazzi riteneva anomala la costante presenza in Sicilia di Mori (il generale Mario Mori, sotto processo, è l’uomo che, secondo l’accusa, avrebbe condotto la Trattativa, ndr). Non me lo disse chiaramente, ma si aspettava di scoprire qualcosa. Non ricordo in quale periodo, penso a quello che poi noi abbiamo chiamato Trattativa”. La Licata segnala pure quella che definisce “l’anomala sequenza di incontri fra Mori e Giovanni Pepi, il condirettore del Giornale di Sicilia. Chelazzi mi diceva che era come se ci fosse qualcosa in itinere. Io l’ho collegato al fatto che Riina in aula disse che qualora avesse rilasciato un’intervista l’avrebbe fatta con Pepi. Era la prima volta che un mafioso si offriva di rilasciare un’intervista e si sceglieva un intervistatore. Chelazzi non di disse mai che Mori e Pepi stessero facendo la Trattativa, ma c’era questo sospetto”.
E poi c’è il capitolo Ciancimino con cui La Licata ha scritto un libro. Il giornalista racconta le confidenze ricevute dal figlio di don Vito sui rapporti fra il padre e Provenzano – “raccontava episodi circostanziati, il padre aveva messo a disposizione di Provenzano una casa a Roma” – e delle sue paure per le continue visite di uomini del sevizi segreti. Su tutti il signor Franco: “Era poco affidabile… c’era un cambio continuo di riconoscimenti, non ti puoi meravigliare di nulla, un giorno diceva una cosa e un giorno un’altra… la riservatezza non era la sua dote principale, aveva una gran voglia di finire sui giornali”. In particolare sull’identità del signor Franco o Carlo, La Licata racconta di avere “chiesto mille volte chi fosse, quando il libro stava per uscire mi disse che era De Gennaro, ma non c’erano riscontri e non lo abbiamo messo nel libro, d’intesa con l’editore”.
Ciancimino è sotto processo a Caltanissetta con l’ipotesi di avere calunniato l’ex capo della polizia. Quel De Gennaro sul conto del quale La Licata spiega che “tante cose fatte da Falcone non si sarebbero potute fare senza De Gennaro”. Quel Falcone che, in occasione del fallito attentato all’Addaura, disse che “il progetto di farlo fuori era di un’altra entità” e non solo di Cosa nostra. Si torna in aula domani, nella speranza che la labirintite di Ciancimino consenta di iniziare il suo contro esame già rinviato più volte per le condizioni di salute dell’imputato e testimone chiave del processo.
Un processo che potrebbe vedere allungarsi la già lunga lista di testimoni. I pm Di Matteo e Del Bene hanno chiesto di sentire Angelo Niceta, rampollo della famiglia di imprenditori dell’abbigliamento che ha descritto i rapporti fra lo zio, Mario Niceta, e Provenzano. Ed anche il pentito calabrese Consolato Villani che ha parlato di alcuni attentati ai danni dei carabinieri, inquadrandoli in una precisa strategia. Le difese si sono opposte: “Non sono vicende sopravvenute” visto che Villani si è pentito nel 2012 e Niceta ha chiesto di parlare con i pm a settembre 2015. La Corte d’assise si è riservata di decidere.
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05 Maggio 2016, 17:39