17 Gennaio 2011, 11:41
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In questo angolo d’Occidente derelitto, i maestri sono estinti. Anche tra quelli che grande hanno fatto la letteratura isolana, il decesso è pratica abitudinaria. Ci manca lo sguardo lucido del maestro di Racalmuto e l’anima poetica del cittadino comisano, quella pure. Ognuno, adesso, si percepisce universo concluso, isola autosufficiente, personalità bastante a se stessa.
I maestri sono morti e nessuno a prodigarsi per rianimarne il pensiero fuori dai circoli per i pochi, nessuno che cerchi nuove traiettorie di senso per questa terra che amiamo. In questa isola dove anche l’ultimo respiro di educazione è stato sradicato, la gente si emancipa dal bisogno di buone maniere. L’urlarsi contro e il guerreggiare tra poveri, questo ci rimane, mentre gentilezza e pacatezza traslocano sui monti, al riparo dei vicoli medievali dove il tempo scorre alla velocità del nostro sangue calmo.
Percorrere a piedi, sporte stracolme nelle mani, i viali sempre più lunghi dei centri commerciali, questo ci rimane. A regolare il flusso del bisogno è la quantità di merce messa in magazzino, regalata a Natale o in tutti gli altri giorni dell’anno, che poi è lo stesso. Il merchandising ha sbattuto la porta in faccia allo spirito poetico, alla riflessione lunga sui temi dell’esistenza. Chi percorre questi territori, oggi, è pure deriso, emarginato nelle nicchie dei suoi simili che si cercano con affanno.
I maestri sono morti e forse è meglio così, ché morirebbero nuovamente, sfiniti dal vomito ininterrotto che questa vista ci produce. Vorrei qualcuno in grado di frenare, rallentare almeno, questo carrozzone variopinto che siamo noi, sempre alla ricerca di una felicità costante. Di quale felicità si parla, però? Della fragranza effimera di una panella sotto i denti o dello sciogliersi docile della ricotta sul palato? Il peccato non sta nell’esubero di merci e nemmeno di quello di contatti sui social network. Il peccato non è materia del mio discorso. L’abuso sta, invece, nel frettoloso uso dei nostri beni, nella fragile consapevolezza che ci governa, nella solitudine che ci attanaglia. L’abuso sta, ancora, nell’assenza di domande su noi stessi. Interrogarsi va bene ma solo se davanti a uno specchio con indosso l’ultimo capo à la page.
Non potrei congedarmi senza esplorare un percorso alternativo, consolatorio forse. Allora mi sono messo qui, in cima al mio trespolo traballante, per chiedere la strada a un maestro, anche lui diseredato. A costo di censure, in terra cattolica come la nostra, mi sporgo verso il limite del buddismo per raccogliere le ragioni del Dalai Lama, del suo insegnamento di esiliato. Nel suo discorso su un cambiamento che vuole dirsi positivo, sulla trasformazione di un comportamento negativo in uno virtuoso, pone l’apprendimento come pietra miliare, punto di partenza di tutto il percorso. E poi, a cascata, la convinzione, la determinazione, l’azione, e infine lo sforzo per consolidare nuovi comportamenti, nuove abitudini.
Mi viene il capogiro a pensare quanti di questi tasselli ci manchino ancora. Ognuno rifletta sugli elementi della propria collana che gli vengono meno e da lì riparta. Io mi interrogo, invece, sul senso di urgenza, fattore cruciale per l’attivazione di questo circuito del miglioramento. Il senso d’urgenza, vero motore mancante alla nostra genìa, offuscata dalla felicità diffusa e superficiale. “Per realizzare obiettivi importanti bisogna avvertire la necessità di un’azione immediata”, queste le parole di Tenzin Gyatso. A noi il resto.
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17 Gennaio 2011, 11:41