09 Maggio 2018, 18:03
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“Dopo tanti tempi di sofferenza, avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, debbono capire che non si permette di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare o calpestare questo diritto santissimo di Dio! Nel nome di questo Cristo crocefisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via e verità. Lo dico ai responsabili: Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!”: il grido, spontaneo e imprevisto, di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento, dopo venticinque anni esatti, è rimasto impresso – a differenza di tanti altri suoi pronunciamenti ufficiali – nella memoria di molti. Ma il tempo logora tutti i ricordi e i vescovi siciliani hanno voluto rievocarlo con un Messaggio indirizzato ai fedeli “oltre che agli uomini e alle donne di buona volontà che vivono e operano per un progresso pacifico e giusto in terra di Sicilia” (accessibile anche in un agile volumetto cartaceo edito tempestivamente dall’editrice Il pozzo di Giacobbe).
Rievocare quell’evento significa, per i pastori cattolici, fare al contempo memoria di “quelle vittime della mafia e di quegli eroi della legalità, che hanno offerto un preziosissimo contributo a che la vita di tutti noi migliorasse. Essi hanno lottato, ciascuno a suo modo, per affrancarsi e per affrancarci dalla morsa di un potere maligno e abusivo, teso a ipotecare la vita di intere comunità, a ricattare le coscienze di tanti e a manipolarne le scelte, a guadagnarsi con perversi contraccambi l’appoggio di molti altri poteri forti e occulti, a inquinare la politica e la pubblica amministrazione, a frenare lo sviluppo economico deviandolo verso finalità illecite e piegandolo a privati tornaconti, a minare in vari modi la libera convivenza, ad attentare al bene comune, a rubare dai cuori degli onesti la speranza in un futuro migliore. Un potere capace, finanche, di indurre qualche ministro di Dio, pavido e infedele, a dimenticare il dovere di resistere ad ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo”.
Nessuna memoria, però, avrebbe senso se non diventasse – almeno nelle intenzioni – “sovversiva” (J. B. Metz), generatrice di un futuro diverso e migliore. E ciò, a parere dei vescovi, potrà prodursi solo a certe condizioni. La prima: smascherare il sistema mafioso, togliergli la parvenza di benevolenza che tuttora mantiene agli occhi di tanti ingenui. Denunciarlo come crimine civile, ma anche come “struttura di peccato”: “Tutti i mafiosi sono peccatori: quelli con la pistola e quelli che si mimetizzano tra i cosiddetti colletti bianchi, quelli più o meno noti e quelli che si nascondono nell’ombra”. La seconda condizione è opporre, con scelte e fatti e dinieghi precisi, “una concreta resistenza, evangelicamente ispirata e motivata”, al dominio mafioso, secondo l’esempio anche di ministri come don Pino Puglisi in Sicilia e don Peppino Diana in Campania. Tuttavia la resistenza, talora a prezzo della vita, di pochi credenti sarebbe sterile se non attivasse un terzo passaggio: la “conversione” delle chiese tutte del Meridione. Questa consapevolezza autocritica. – i vescovi siciliani lo ammettono lealmente – è avviata ma non conclusa: “la mafia è un problema che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza sociale in determinati territori e ambienti, il vissuto dei suoi membri, di quelli che resistono all’invadenza mafiosa e di quelli che invece si lasciano dominare”. Sarebbe da ingenui supporre che le pronunce solenni ecclesiali giungano a “interpellare e a scuotere davvero i mafiosi”: più realistico e più urgente, sia pure in una prospettiva di lungo periodo, preoccuparsi che “il discorso cristiano sulle mafie si traduca ancora in un respiro pedagogico capace di far crescere generazioni nuove di credenti”. Il documento si sofferma su diverse conseguenze operative di tale “traduzione”, tra cui (qui è possibile limitarci a un’esemplificazione fra le altre) la rilettura critica della devozione popolare: “Non possiamo tollerare che le festività di Cristo Gesù, di Maria Madre sua e dei suoi santi degenerino in feste pseudo-religiose, in sagre profane, dove – nella cornice di subdole regie malavitose – all’autentico sentimento credente si sostituiscono l’interesse economico e l’ansia consumistica, e dove non si tributa più onore al Signore ma ai capi della mafia”.
Il messaggio della Conferenza episcopale siciliana, in chiusura, si appella infine agli stessi mafiosi, ai loro familiari e ai loro amici, riprendendo le parole di don Pino Puglisi poco prima di essere vigliaccamente assassinato: “Mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile”.
A un’analisi più approfondita di questo sintetico report si potrebbero evidenziare numerosi limiti del documento episcopale. Intanto, però, è il momento di compiacersi dei pregi: quanta acqua è passata sotto i ponti dalla Lettera pastorale del cardinale Ernesto Ruffini su Il vero volto della Sicilia, del 1964, in cui la mafia – minimizzata come una delle tante organizzazioni criminali presenti nel mondo – era abbinata agli altri due mali che ottenebravano l’immagine della nostra isola: “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa e l’azione sociale di Danilo Dolci!
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09 Maggio 2018, 18:03