18 Maggio 2014, 10:59
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La riflessione di Roberto Puglisi, su Livesicilia, mi dà l’opportunità di fare qualche considerazione. Il problema principale relativo ai Rom è la nostra scarsa conoscenza e, di conseguenza, il prevalere del pregiudizio. Per questa ragione ritengo importante, aiutato dalla mia maestra di cultura romanì Giulia Veca, chiarire alcuni aspetti poco noti, ritenendo fondamentale che la stampa debba svolgere, fino in fondo, il compito pedagogico che le è proprio.
I numeri
In Italia vivono oggi circa 170.000 rom, distribuiti nelle venti regioni della penisola. Più della metà sono cittadini italiani. Gli altri, cittadini comunitari, non comunitari e apolidi. A Palermo vivono poche centinaia di unità. Le famose “invasioni” di rom di cui certa stampa ha parlato per anni sono solo il frutto di disinformazione o malafede.
La provenienza
I primi nuclei giunti a Palermo negli anni Novanta fuggivano dalle guerre nell’ex Jugoslavia. I territori di provenienza erano il Kosovo, il Montenegro, la Serbia. Non erano nomadi – come non lo è nessun altro rom da almeno cinquecento anni, nonostante ciò che i nostri luoghi comuni ci raccontano – ma profughi e non avevano mai abitato in un campo. Nella lingua romanì non esiste la parola “campo” come luogo di segregazione di esseri umani. È una parola – ma soprattutto una modalità abitativa – che hanno dovuto imparare a loro spese in Italia. Non a caso l’European Roma Rights Centre, il centro con sede a Budapest che si occupa di monitorare le condizioni di vita dei rom in Europa, ha definito l’Italia, in un rapporto del 2008, il “Paese dei campi” e ne ha condannato le politiche discriminatorie. Oltre alla presenza di queste famiglie, nel capoluogo siciliano vivono alcuni gruppi di rom romeni, giunti negli ultimi sei/otto anni. Si tratta, data la provenienza, di cittadini comunitari, ma nonostante ciò, vengono impropriamente definiti dalla stampa locale “extracomunitari”.
I campi
Andrebbe abbandonata l’idea, assolutamente falsa, che la vita all’interno di questi luoghi sia una scelta dei rom, o una loro caratteristica “culturale”, come amano ripetere quelli che non conoscono la cultura rom. Come ha più volte sottolineato Santino Spinelli, rom abruzzese, musicista, docente di lingua e cultura romanì, nessun essere umano sceglie di vivere di stenti, miseria e sporcizia, se non è costretto. Quello che era il frutto di scelte politiche scellerate è diventato oggi “attributo” di un’intera popolazione. Non solo li abbiamo costretti a vivere in luoghi indecorosi, privi di acqua corrente, elettricità, riscaldamento, ma ci siamo persino arrogati il diritto di stabilire cosa fosse “cultura” per loro. I presunti problemi di convivenza invocati da più parti non dipendono, dunque, dalla “natura” dei rom, ma dalle relazioni sociali che abbiamo allacciato con essi; relazioni basate sull’emarginazione e il disprezzo.
Il nomadismo
Insieme al pregiudizio sulla vita nei campi andrebbe decostruito quello – immutato nei secoli – del nomadismo. È sorprendente come la nostra immagine dei rom sia rimasta ferma al Cinquecento, alle carovane, alle gonne lunghe, alle doti divinatorie e a “prendi questa mano, zingara”. Un’immagine stereotipata e in evidente contrasto con la vita reale dei rom di tutta Europa.
Lungi dall’essere dettato da motivazioni culturali, o addirittura genetiche, come sostenevano le teorie pseudoscientifiche dei nazisti, il “nomadismo” dei rom oggi non è altro che una mobilità coatta, prodotta da espulsioni e sgomberi. E l’utilizzo del termine come sinonimo politically correct di rom è estremamente errato. Dei 170.000 rom presenti in Italia, solo una piccolissima minoranza si sposta all’interno dei confini nazionali durante l’anno: sono i circensi, alcuni molto famosi, come i Togni e gli Orfei, e coloro i quali praticano mestieri ambulanti. Durante i mesi estivi girano tra fiere, mercati e sagre vendendo la loro mercanzia e poi tornano nella loro città e nelle loro case. Tutti gli altri sono stanziali. Da secoli.
Il mito della zingara rapitrice
Tra i pregiudizi tramandati di padre in figlio nella nostra cultura, il più inossidabile è quello della zingara rapitrice. Ognuno di noi possiede certamente un aneddoto da raccontare su un minore rapito da qualche rom. E invece, non appena si abbandona il mondo delle leggende infamanti e si entra in quello dei fatti e della scienza, si scopre che la verità è un’altra. Sabrina Tosi Cambini è l’autrice di un libro pubblicato nel 2008, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze, in cui vengono analizzati tutti i casi di presunti tentativi di rapimento di minori ad opera di rom, in un arco temporale che va dal 1986 al 2007. La sua ricerca dimostra che nessun bambino è mai stato sottratto dai rom e che nel caso di minori effettivamente scomparsi, le comunità rom erano del tutto estranee ai fatti. Ma questa leggenda è difficile da sfatare, tanto che puntualmente qualche autorevole giornale ripropone, in forma di verità, consolidate falsità.§
Quale nome
Il primo fattore discriminatorio che colpisce la popolazione romanì è la nostra incapacità di darle un nome. Le nostre scelte oscillano solitamente tra termini errati e termini offensivi. L’utilizzo del termine nomade è, come abbiamo visto, sbagliatissimo e infondato. Lo stesso vale per “zingaro”, che in più ha assunto un significato dispregiativo. Come scriveva Donald Kenrick, studioso di cultura romanì, gli zingari altro non sono che “la razza fantasma inventata dai gagé”.
Dovremmo mettere definitivamente al bando questi termini e lasciarci suggerire dai diretti interessati la parola più adatta, cioè rom, che in lingua romanì significa semplicemente “uomo”, “essere umano”. Ecco perché il modo più giusto per parlare dei rom è quello di considerarli, semplicemente, “umani”.
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18 Maggio 2014, 10:59