08 Luglio 2018, 06:04
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PALERMO – È ormai passato alla storia come il grande depistaggio. È vero, tante, troppe cose restano da chiarire sulla strage di via D’Amelio.
Se depistaggio ci fu, però, chi lo ha ideato non poteva certo mettere in conto l’apporto, inconsapevole e in una buona fede per carità, di decine di magistrati. C’erano. infatti, tutti gli elementi per smascherare l’inganno del pentimento di Vincenzo Scarantino. Lo ribadisce con forza la Corte di assise di Caltanissetta nelle motivazioni del processo “Borsellino quater” depositate nei giorni scorsi.
Eppure le bugie del picciotto della Guadagna sono state prese per oro colato da pubblici ministeri e giudici nei tanti processi celebrati finora. Il risultato sono stati gli ergastoli inflitti a gente innocente e una verità che si è allontanata. Non si trattò di distrazione di massa, di fretta di offrire un colpevole ad un’opinione pubblica sgomenta per le bombe. Secondo la Corte del processo quater, è stato sbagliato il metodo di lavoro con cui furono valutate le dichiarazioni di Scarantino. Un metodo che, per buona pace dei tanti che si autodefiniscono eredi di Giovanni Falcone, è andato nella direzione opposta agli insegnamenti del magistrato ucciso poco prima di Paolo Borsellino.
“Le anomalie nell’attività di indagine continuarono anche nel corso della collaborazione dello Scarantino – scrive il collegio presieduto da Antonio Balsamo – caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla ‘ritrattazione della ritrattazione’, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza)”.
Ed ecco l’affondo: “Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il ‘metodo Falcone’”.
C’erano tutti gli elementi per accorgersi dell’errore giudiziario. Lo urlavano in aula gli avvocati degli imputati ai quali non fu riconosciuto alcun titolo di credito per il fatto stesso di difendere degli assassini che poi si sarebbero rivelati innocenti. Lo misero per iscritto due pubblici ministeri, Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, prima di andare via da Caltanissetta (a continuare le indagini rimasero Giovanni Tinebra, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo) negli “appunti di lavoro per la riunione della Dda del 13.10.94”, in cui segnalavano che “l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di Via D’Amelio (…) di Cancemi, La Barbera e Di Matteo (ma anche di Ganci Raffaele) suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di tale collaboratore”.
Lo scrissero persino alcuni giudici, quelli del processo Borsellino ter, che Scarantino si stava accreditando di un ruolo che non poteva mai avere avuto. Altro che uomo d’onore, ritualmente punciuto, Scarantino non aveva fatto parte di Cosa nostra. Non era né attendibile, né genuino. Come poteva un picciotto della Guadagna, che non godeva di buona reputazione nella borgata palermitana, avere assistito alla riunione, organizzata in una villa, in cui Totò Riina decise di ammazzare Borsellino. Scarantino disse che erano presunti pure Gioacchino La Barbera e Salvatore Cancemi, pentiti dall’attendibilità granitica che negarono la circostanza. Nessuno conosceva Scarantino negli ambienti mafiosi di allora eppure con facilità riuscì a cucirsi addosso il ruolo di “uomo d’onore riservato” affiliato nell’ombra da pezzi da novanta come Salvatore Profeta, Pietro Aglieri e Carlo Greco. Offriva la sua versione della strage di via D’Amelio, dicendosi convinto che una bombola di gas avesse potenza maggiore dell’esplosivo. Si era inventato tutto, così egli disse, pressato per le torture del super poliziotto Arnaldo La Barbera e dei suoi uomini.
Scarantino, si legge ora nelle motivazioni, tra tante bugie aggiunse alcune verità che non poteva saper se non perché era stato imbeccato da qualcuno. E allora è giusto che si indaghi sui misteri che restano, per primo quello della sparizione dell’agenda rossa di Borsellino dal luogo della strage. Al contempo, però, si ammetta che se depistaggio c’è stato, una fetta della magistratura avrebbe potuto smascherarlo e non lo ha fatto, omologandosi a una verità che scricchiolava. Non caso la Corte d’Assise scrive che molte risposte rese da Scarantino “appaiono indubbiamente influenzate dall’interrogante”. Si partiva da una verità, non la si cercava. E alla fine sul campo sono rimaste solo le maceria delle bugie. Come non ritenere legittimo, dunque, l’appello di Fiammetta Borsellino: “Alla luce della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, gli chiederò che sia fatta luce sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini e nei processi sulla morte di mio padre”.
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08 Luglio 2018, 06:04