15 Ottobre 2008, 16:37
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Marisa Grasso, vedova Raciti, è una donna forte. Durante un’intervista, nella sua casa di Acireale, chiese appena la grazia di potersi cambiare d’abito. Le sembrava poco decoroso parlare di suo marito con i vestiti della spesa e della fatica.
Sparì per un attimo, la signora Marisa, lasciando il salotto in un silenzio reso asmatico dall’assenza. I suoi figli erano altrove. Una stanza era stata arredata con i cimeli dell’epoca della felicità. L’ispettore Filippo Raciti sfolgorava nelle fotografie, sorrideva di riflesso nei trofei, nelle mostrine della divisa, nei berretti blu, nelle immagini che ritraevano la sua carriera di poliziotto buono e onesto. La moglie tornò dopo qualche minuto. Un tranquillo filo di trucco, il tailleur. Affrontò le domande con serenità. Raccontò gli attimi interminabili della corsa disperata in macchina verso l’ospedale. Il telefonino dava, ad ogni chiamata, presagi contrapposti. La speranza si apriva e si richiudeva. L’arrivo in corsia. Un corpo ai minimi termini. Le lacrime di sangue sul viso di Filippo, per l’eruzione del dolore. Non restava altro da fare: detergerle e conservare i fazzolettini a futura memoria.
Ora, Marisa Grasso – che ha perso suo marito, il suo vero nome e che sarà, fino alla fine dei suoi giorni, soltanto la vedova Raciti per brevità di titolazione – torna a parlare. Si confessa con l’agenzia Italpress, in vista del derby tra Catania e Palermo. I tifosi rosanero non saranno sugli spalti, per questioni di ordine pubblico. Tutto – anche questa ferrea proibizione – nacque dalle immagini di follia di quella notte, accecata dagli incendi e dalla violenza.
Come sarà la domenica di Marisa? “Non andrò allo stadio. Passeremo la giornata in campagna con i miei figli. Assistere alle partite significa rinnovare un dolore provocato da una ferita sempre aperta. E’ da un anno e mezzo che tengo viva la memoria di mio marito e sto ad ascoltare i messaggi che Catania lancia. Io non ho risposto con la violenza alla violenza ricevuta. Rispondo con il silenzio. Dalla città e dallo sport mi aspetto una risposta vera e chiara, che purtroppo non vedo. Voglio vedere risultati. La violenza la sento ogni giorno su di me, sui miei figli. Fino ad ora non ho avvertito nessun cambiamento. Sempre segnali di violenza. I veri tifosi, ormai, sono costretti a rimanere a casa. Non chiamatemi quegli individui violenti tifosi, sono solo criminali, delinquenti”.
E anche la città etnea forse non ha imparato tutto quello che ci sarebbe stato da imparare. Marisa Grasso ha più volte ricordato di essere stata accompagnata da indifferenza e ostilità, come una che intende farsi pubblicità con le disgrazie. Quasi un sentimento di fastidio collettivo, culminato pubblicamente nella polemica con l’amministratore delegato del Catania, Pietro Lo Monaco, intorno al fantasma di un’accusa di presenzialismo mai confermata. E tanto, troppo, silenzio.
“Quella sera – dice la signora Grasso – non erano solo in due a partecipare agli scontri davanti allo stadio. La tifoseria violenta non la identifico solo con i due ragazzi coinvolti nell’inchiesta. Ho visto i filmati di quei tragici scontri. Insieme a loro c’erano tanti altri ultra”. Ma queste sono parole che il calcio non vuole sentire pronunciare. Il pallone preferisce la retorica dei pochi delinquenti che infangano il buon nome dello sport. E’ consolante pensare che il male si incarni oltre la nostra dimensione.
Crede nella giustizia, Marisa? Risposta: “La violenza immediata e’ distruttiva e la giustizia e’ un processo lento. Sono comunque fiduciosa”.
Come può esserlo una donna che ha dovuto conservare il sangue del suo uomo e tutto quello che amava in un fazzolettino di carta.
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15 Ottobre 2008, 16:37