Il “dilemma” Trump |nell’America divisa

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15 Ottobre 2016, 11:07

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“Certo, è un bel dilemma”, fa spallucce Craig Petersen, sindaco di Logan, un’ora di macchina da Salt Lake City, nelle lande dei mormoni, profonda America. Parla di Trump, e soffre come tutti i repubblicani moderati come lui, che nell’eccentrico milionario vedono un mondo troppo lontano dai valori che per anni li hanno tenuti nel Grand Old Party dei conservatori. E forse per capire qualcosa di più dall’Italia di questa originale campagna presidenziale Usa è utile partire proprio dallo Utah. Qui, nello stato dei mormoni, repubblicano fino al midollo da decenni, il ciclone Donald Trump è più duro da digerire che altrove. E qualcuno prevede addirittura una clamorosa sorpresa. A sentire i repubblicani del posto, il più cauto parla appunto di “dilemma”. Altri fanno il gesto di turarsi il naso e imbucare la scheda nell’urna. C’è da scegliere tra il partito (e negli Usa il sentimento di fedeltà al partito è più sviluppato a destra che a sinistra) e le “values”, i valori. Quelli dei repubblicani moderati, che attingono in gran parte alla religione. Il che, da queste parti sulle Montagne Rocciose, si traduce in un acronimo di tre lettere, Lds. Cioè “Latter-day Saints”, la Chiesa dei Mormoni, che a Salt Lake City e dintorni fa il bello e il cattivo tempo da sempre. Nella legislature dello Utah, il Parlamento dello Stato, il novanta per cento degli eletti è di religione mormone.

Nell’ufficio del sindaco di Logan (per un paio d’anni in cima alla classifica delle città più sicure degli Usa) Petersen, un ex professore active mormon come buona parte dei politici dello Stato, finisce per parlare della campagna per la Casa Bianca con i giornalisti stranieri in America per il programma Ilvp, che ci porta in giro per gli States nei giorni caldi della sfida. “Ho votato per Romney – ricorda Logan, richiamando il più noto politico mormone d’America in attività, quello che sfidò Barack Obama alle presidenziali per il Gop – ma trovo Obama un presidente degno di rispetto. Stavolta sarà un vero dilemma”. Stessa aria tira al Parlamento dello Stato, a Salt Lake City. Anche qui i repubblicani non fanno salti di gioia. Ci pensa un democratico, mormone anche lui, a spiegare qualcosa di più: “Trump è molto distante dalle ‘values’ dei mormoni soprattutto sull’immigrazione. I fedeli Lds sono stati discriminati in passato e sono molto sensibili sul tema dell’accoglienza”, dice il deputato Brian King. Todd Weller, senatore repubblicano, si sbilancia nella non ardua previsione: “Trump qui potrebbe avere meno voti di quanti ne prende di solito il partito”.

In effetti, i big repubblicani dello Utah non hanno fatto endorsement per il milionario. Anzi, il Salt Lake Tribune, quotidiano locale molto letto, ha passato in rassegna gli imbarazzati “don’t ask”, “non chiedetemelo”, dei pezzi grossi del partito nello Utah, da Romney a scendere. E lo stesso giornale solo qualche giorno fa, dopo il secondo dibattito in tv, anche questo vinto ai punti da Hillary, si è sbilanciato con un endorsement in favore della ex first lady.

Eppure, un popolo di Trump c’è e lo incontri nei bar, sui taxi, tra la gente. Magari non sono repubblicani doc. Sono per lo più bianchi, anzi quasi esclusivamente bianchi, abbondano negli stati dell’interno, nei piccoli centri, dove la rabbia e la paura per un’America che sembra non più great si fa sentire. Dove i posti di lavoro sono evaporati negli anni per la delocalizzazione operata dalle aziende verso il Centro America. Dove la paura per l’immigrato, in un Paese di immigrati, comincia a serpeggiare. E se ci parli per cinque minuti, con i Trump people, la parola che senti più spesso è cambiamento. Quel cambiamento che Hillary, incarnazione dell’establishment di Washington, certo non può incarnare. A un italiano le analogie della retorica trumpista con i cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle non sfuggono. Il cambiamento, certo, ma anche gli strali contro i politici di professione e contro le bugie dei giornalisti e dei giornali di cui non ci si può fidare. Del repertorio populista del candidato di destra, il punto che fa più presa tra la gente è quel “bring back the jobs”, a cui un pezzo d’America vuol credere. Portare indietro i posti di lavoro finiti altrove. Come? Rimettendo dazi per chi produce fuori dagli States. Facile a dirsi.

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Ma i temi pentastellati nella propaganda trumpista non sono certo la sola analogia con l’Italia. Negli Usa il copione di questi giorni sa terribilmente di dèjà vu per chi arriva dalle nostre parti. Di politica e dei problemi reali non si parla da un pezzo. C’è solo Trump e il dibattito su quanto sia fit o unfit, adeguato o meno a governare la prima potenza del mondo. Vi ricorda qualcuno? Roba già vista dalle nostre parti, con vent’anni d’anticipo. Come una certa, diffusa spocchia dei liberal nel marchiare gli elettori del milionario come figli di un dio minore, senza interrogarsi troppo sui motivi del loro malessere. Gli spot di Hillary puntano sulle sue frasi sessiste e mostrano adolescenti insicure allo specchio chiedendo alla fine: “E’ questo il presidente che vorresti per le tue figlie?”. Questo il tenore del dibattito. Con l’avversario che invece tira in ballo a ogni buona occasione lo scandalo delle email e ricorda al suo potenziale elettorato che tutta la finanza e le lobby che contano stanno dietro alla signora Clinton. “Follow the money”, insiste Donald. Che malgrado gli scivoloni sessisti non è ancora al tappeto.

E così Hillary Clinton presenta se stessa come l’ultima barriera per salvare l’America dall’Apocalisse. Intanto, i volontari democratici nel Nevada si sbracciano nel porta a a porta. Al comitato del Partito democratico di Reno si lavora senza sosta, chiamando e richiamando gli elettori. Qui nel vecchio West, dove i casinò ti accolgono già dentro l’aeroporto, la partita è in bilico. Questo è uno swing state, e chi lo becca quasi sempre si prende la Casa Bianca. Per questo i candidati investono molto denaro nella pubblicità da queste parti. Non solo loro, anche le lobby. Come quella dei produttori di armi che mandano in onda uno spot assai duro, in cui una giovane donna riceve una visita indesiderata a casa, cerca la pistola nel cassetto e non la trova, perché Hillary non le permette più di tenerla. Dissolvenza, ambulanza e barella con cadavere portato via. È l’America, bellezza.Quella dove il secondo emendamento, che sancisce il diritto di possedere armi, è preso molto sul serio. Come in Nevada, dove la pistola puoi portarla un po’ dappertutto. E dove i sostenitori di Trump che si riuniscono per una cena di fundraising in un casinò (e dove altro?) per guardare il primo dibattito tv, sghignazzano ogni volta che sulla bocca di Hillary prende forma la parola “verità”.

La signora Clinton è in vantaggio nella maggior parte dei sondaggi. Ai quali il popolo di Trump, scettico su tutto ciò che appare sui media mainstream, non crede. Pare che le donne stiano abbandonando il candidato accusato di sessismo, non gli perdonano quel “grab them by the p.”(“prendile per la f.”), catturato in una conversazione da camerino dieci anni fa. Restano i maschi, bianchi. E la partita si giocherà negli swing states. Come la Florida. Dove Obama nei giorni scorsi era atteso per dare man forte a Hillary per un rally rimandato a causa dell’arrivo dell’uragano Matthew. Anche qui, tra i locali affollati di Ocean Street a Miami Beach, tra la gente comune, è facile trovare entusiasti di Trump. Una cosa è certa: e non c’è politico, giornalista, accademico che non la ripeta a ogni chiacchierata: questa è una campagna diversa da tutte le altre. Il tassista-predicatore di Reno, Nevada, la mette così: “I due candidati? E’ un segno che la fine dei tempi è vicina”. E giù una citazione escatologica dall’Antico testamento, rigorosamente a memoria. E un pizzico d’ottimismo di marca Usa: “Per chi crede, in fondo, è una buona cosa. Vedremo Dio molto presto”.

 

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15 Ottobre 2016, 11:07

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