23 Agosto 2020, 20:03
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PALERMO – Le quattro morti volontarie – tre di detenuti, una di una poliziotta penitenziaria – succedutesi a pochi giorni di distanza in questo mese di agosto in Sicilia, ripropongono la gravissima e drammatica questione del suicidio nelle carceri, che per intuibili ragioni si acutizza nel periodo estivo. Gli eventi suicidiari di questa natura, oltre a essere la spia di rilevanti disagi psicologici personali, costituiscono per altri versi un inequivocabile sintomo delle problematiche, e non di rado cattive (se non pessime) condizioni di vita negli istituti di pena: le quali producono, purtroppo, effetti psicologici negativi sulle persone recluse, talora aggravando disturbi di personalità preesistenti, e altresì comportano situazioni di grave stress e stati depressivi negli agenti e, più in generale, negli operatori penitenziari ai vari livelli, sottoposti a carichi di lavoro eccessivi e per di più espletati in un clima ambientale psicologicamente molto usurante.
Indagini giudiziarie in corso sui decessi dei tre detenuti potranno accertare eventuali responsabilità per omessa o insufficiente sorveglianza, o per colposa sottovalutazione del rischio di atti autolesivi. Ma, al di là di possibili responsabilità penali (peraltro, assai difficili in questi casi da verificare probatoriamente al di là di ogni ragionevole dubbio), il vero problema che emerge è di ordine per così dire sistemico e provo a formularlo nei termini di un interrogativo. Vi è cioè da chiedersi se la custodia cautelare in carcere sia uno strumento di intervento sempre idoneo ed adeguato allo scopo di controllare la ritenuta pericolosità di soggetti che versino in condizioni di serio turbamento psichico, e siano accusati di reati sintomatici – a loro volta – di atteggiamenti reattivi e di dinamiche psicologiche a carattere conflittuale che spesso hanno, appunto, radici in disturbi della personalità: i tre detenuti suicidi appaiono infatti accomunati – stando alle prime informazioni acquisite – dall’aver fatto ingresso in carcere da poco tempo e dall’aver commesso gravi violenze domestiche, stalking e maltrattamenti in famiglia.
E’ del tutto casuale questa coincidenza? Forse, l’interrogativo merita qualche riflessione più approfondita. Comunque sia, essendo più in generale in notevole crescita il numero dei reclusi affetti da disagio psichico e/o da patologie psichiatricamente rilevanti, non da ora – e non soltanto in Sicilia – si chiede alle autorità politico-sanitarie regionalmente competenti di potenziare l’assistenza psicologica e psichiatrica negli istituti di pena, sia per adeguare le attività trattamentali alle caratteristiche dei soggetti più problematici, sia – e non ultimo – al fine di prevenire e ridurre il rischio-suicidio. Maggiore e più fattiva attenzione dovrebbe, nel contempo, essere rivolta alla condizione di forte stress in cui vivono gli agenti penitenziari.
C’è, tutt’altro che secondaria, una esigenza di adeguamento quantitativo del personale. E sono anche opportune le proposte di incrementare le forme di sostegno e assistenza psicologica a beneficio degli stessi agenti, e di elevarne qualitativamente la formazione professionale anche con corsi di psicologia. Ma, alla radice, riemerge una necessità che è ben più di fondo e di ben maggiore respiro: vanno cioè ripensate, per un verso, la logica d’impiego (sproporzionata per eccesso) della pena carceraria e, per altro verso, la logica di funzionamento e la logica organizzativa delle carceri. Obiettivi troppo ambiziosi e poco realistici, considerato trend politico-culturale iper-punitivista oggi dominante? Anche l’approccio realistico dovrebbe invero guardarsi da un rischio sempre incombente, che è quello di tramutarsi in rassegnato pessimismo immobilista.
Una cosa è certa. L’esperienza storica comprova che, senza sprazzi di ‘concreta utopia’ innescati da minoranze politico-culturali illuminate, e senza svolte innovative coraggiose, l’universo carcerario non può che replicare il suo modello di istituzione totale ed escludente, più desocializzante che rieducativa, con risultati nel complesso più dannosi che utili per i singoli detenuti e per la società nel suo insieme.
*L’autore è Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia
Pubblicato il
23 Agosto 2020, 20:03