Il funerale e la “sciddicata”

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31 Marzo 2011, 11:02

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Debbo chiedere scusa a Mimì e ringraziare il sindaco di Palermo. A malincuore. Nel primo e nel secondo caso. Perché una dolorosa circostanza mi ha confermato che a Palermo è difficile non solo vivere, ma anche morire.  Mimì è, era Mimì La Cavera, l’ingegnere gran regista di tante battaglie, compresa quella che sfociò nella nascita della Sicilfiat. Se ne è andato a 94 anni. Nello stesso anno in cui fanno morire lo stabilimento di Termini Imerese per volere di Marchionne, anche nell’acquiescente atteggiamento di una Confindustria a volte vigorosa e coraggiosa, a volte troppo diplomatica, attenta a non scalfire i poteri forti, quelli veramente forti. E lo dico perché di questa amarezza e di tante altre ansie erano infarcite le nostre ultime continue conversazioni. Ossessionato com’era dall’idea di lasciare un mondo iniquo e traballante.

L’ho accompagnato una grigia mattina di metà febbraio, dopo l’affollata cerimonia funebre, al cimitero dei Rotoli con le sue figlie, i generi, i nipoti, pochi amici. Venti persone raccolte davanti alla gentilizia di famiglia, per più di mezz’ora in attesa del carro che curiosamente s’era bloccato all’ingresso. Pensando a un intoppo nelle pratiche avviate dall’agenzia di pompe funebri, sono stati due nipoti di Mimì a ripercorrere i loro stessi passi lungo i vialetti fino agli uffici del cimitero, all’area degli addetti alla tumulazione, tutti operai Gesip, ho appreso, una novantina sulla carta, una quindicina quelli visibili nei dintorni. Sorprendente, nella sala del direttore, la risposta di un impiegato a un nipote: “Ritardi? Non lo vede che piove? Oggi non si lavora”.

Già, dimenticavo di dire che intorno a mezzogiorno, al momento dell’arrivo, avevamo notato una pioggerellina leggerissima, ma senza nemmeno aprire qualche ombrello portato per precauzione da alcuni familiari. “Scusi, ma adesso non piove. E comunque la cappella di famiglia è al coperto”, s’è azzardato a ribattere il nipote beccandosi una risposta che solo un palermitano può afferrare. “Si sciddica…”. Non c’era bisogno di interpreti per capire che il rischio di “sciddicare”, di scivolare sul terriccio o sulle lastre di marmo, veniva offerto come muro invalicabile alla richiesta, come oggettiva impossibilità ad operare, come conseguente e perentorio invito a far spostare la bara dell’ingegnere in deposito, “come s’è fatto con gli altri sette di stamattina”.

Mi sono affacciato nel magazzino di fronte all’ufficio. Uno spettacolo indecoroso. Più di cento bare accatastate perché un pezzo di cimitero frana, dicono, come succede da anni, sempre con qualcuno che annuncia soluzioni mai messe in pratica. Ma questa è indecenza antica, radicata in una città dove non si riesce a programmare niente. Nemmeno la cosa purtroppo più facile e prevedibile con cui l’uomo deve fare i conti. Nel caso del mio amico Mimì la cialtroneria della cattiva amministrazione finiva però per miscelarsi con una arroganza e una tracotanza che solo in un carrozzone già noto alle cronache come la Gesip possono allignare.

Campeggiava in quello “sciddica” e nelle seguenti surreali conversazioni, segnate da mimica e sguardi complici e minacciosi ad un tempo, l’idea che non si potesse approfittare della pazienza di operai stanchi e a rischio, senza peraltro potere rivendicare un intervento che, comunque, avrebbe messo su un piano di privilegio l’ultimo arrivato rispetto agli altri sette defunti già in deposito. L’allucinazione di sentirsi nel torto quando hai ragione da stravendere è il diabolico miracolo del Potere che spesso porta i palermitani ad essere silenziosi, remissivi, accondiscendenti, infine corresponsabili e correi. Anche se il Potere in quel momento era rappresentato da un gruppetto di operai rimasti in loco quando gli altri, inseguiti dalla pioggerellina, erano spariti dalla circolazione e un giovane direttore affannato sapeva solo allargare le braccia davanti ad una ferrea e inviolabile consuetudine.

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Ce ne stavamo per andare sconfitti quando ho deciso che, violando una discrezione codificata nel gene di Mimì, dovevo almeno provare a fare una telefonata di protesta. Anche a costo di farla apparire una richiesta di raccomandazione. Come non era. Una telefonata al sindaco, in quel momento ovviamente impegnato in una sfilza di riunioni sui mille seri problemi della città, come riferito da una garbatissima segretaria alla quale mi sono limitato a raccontare in estrema sintesi il paradossale intoppo di quella mattina con un solo commento: “Apprendere che a Palermo non si lavora quando pioviggina è una grande notizia. Lo dica per favore al sindaco”.

I nipoti si erano alternati e alterati nelle conversazioni precedenti con il direttore. Anche chiedendogli di ripetere la storia della “sciddicata” ai carabinieri che avrebbero potuto chiamare di lì a poco. Ma fra i cipressi era tornata una quiete apparente, improvvisamente interrotta da grida furenti che contrapponevano il direttore allo sparuto gruppetto degli operai rimasti lì in attesa della fuga di pranzo. Collera e rabbia echeggiavano sul vialetto dove vedevo la macchina con la bara di Mimì. E mi sembrava di scorgerne lo scarno volto, accigliato e risentito per quella telefonata che doveva essere stata la molla dei contrasti maturati in un contesto dove garbo, disponibilità, gentilezza dovrebbero essere costume e bene comune d’ogni addetto, al di sopra e al di sotto d’ogni qualifica.

Pensavo questo, indispettito con il mondo in cui vivo e con la stessa irritazione che ha accompagnato Mimì negli ultimi mesi, quando squilla il mio cellulare. La segretaria: “Il sindaco sta provvedendo personalmente”. Già, ce ne eravamo accorti. Credo che saranno state necessarie altre telefonate e altre mediazioni. Non so quante e non so di che tipo. Fatto sta che le grida continuavano a scuotere la pace ormai infranta nella pena di una funzione sfregiata da boria e prepotenza. Per un’ora ancora. Finché quattro di quegli operai sono comparsi insaccati in cartacee tute usa e getta, alzando una lastra dentro la cappella e adagiando la bara nel loculo prestabilito. Tutto dentro la cappella, all’asciutto. Mentre però fuori, dopo due ore d’attesa, pioveva davvero.

E’ la cronaca di una raccomandazione che forse Mimì ancora mi rimprovera, visto che gli altri sette suoi ignoti compagni d’avventura sono rimasti in deposito. Siamo tutti uguali, avrebbe ripetuto un po’ burbero. E per questo gli chiedo scusa, costretto allo stesso tempo a ringraziare il sindaco. A malincuore.

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31 Marzo 2011, 11:02

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