Il lungo corteo contro la mafia | Ecco la Sicilia della speranza

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23 Maggio 2019, 20:38

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PALERMO – Striscioni, lenzuoli e drappi bianchi dai balconi, cori e balli: quasi stordisce la Palermo in uno dei giorni simbolo della sua storia. “Giovanni e Paolo”, scandiscono all’unisono le voci del corteo partito alle 16 dall’aula bunker dell’Ucciardone; la musica è quella di Fabrizio Moro o dei Modena City Ramblers, quella dei luoghi e delle occasioni in cui la mafia viene, con le note, “invitata” a scomparire per sempre. Il corteo è un torrente in piena e diventa un fiume quando, in via Duca della Verdura, si congiunge con la marcia partita quasi in contemporanea da via D’Amelio. La direzione è sempre una sola: l’Albero Falcone, simbolo di rivalsa e di lotta contro la mafia.

“Lezione di vita, lezione di coraggio, questo per noi è il 23 maggio”. È uno dei tanti cori intonati da giovani e adulti, scout, volontari, studenti e professionisti all’altezza di un’altra tragica tappa di mafia: il tratto di via Notarbartolo dove, il 14 novembre 1982, è stato ucciso il poliziotto Calogero Zucchetto. Il nome del “cacciatore di latitanti” risuona forte nelle casse dell’auto che guida la passeggiata, mentre uno striscione appeso a un balcone lo ricorda ancora una volta e per sempre. Chi arriva all’Albero Falcone è accolto dal comico palermitano Roberto Lipari, che si riferisce ai mafiosi come a “bambini viziati”. “Li abbiamo fatti sentire importanti – dice Lipari –. In spiaggia costruivano castelli di sabbia abusivi, e il loro gioco preferito era ‘prestanomi, cose e città’”.

Sul palco sale Maria Falcone, sorella di Giovanni, che si appella a tutti i presenti: “Pensate a lui non solo come giudice antimafia ma come uomo dello Stato, che esce dal portone con le sue cartelle sempre piene”. Poi è il turno di Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, arrivato a Palermo stamani a bordo della Nave della legalità insieme a 1.500 studenti. Dalla Chiesa invita a non dimenticare la scuola italiana come culla imprescindibile dei valori con cui contrastare la mafia. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, si rivolge direttamente alla platea: “Siete migliaia e migliaia, ma in realtà siamo 50 milioni di persone che oggi credono che la mafia si può battere. Ciascuno di voi è consapevole di poter strappare dalle mani della mafia la vostra libertà. Falcone ci ha dato tanto da vivo – continua – ma ci sta dando tanto da morto. Ci è sempre vicino e continua a essere vivo, per cui ci moltiplichiamo di giorno in giorno. Non credete a chi vi dice che le mafie continueranno ad esistere. Non è vero”.

“Questa è la terra dell’accoglienza”, “La mafia è un fenomeno afferente le classi dirigenti”: Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre, pronuncia poche parole concise ma che parlano alla pancia dei presenti. È ovazione. “Il nostro report annuale sulla percezione del fenomeno mafioso dice che il 90% degli studenti italiani ripugna la mafia e il 90% ritiene sia colpa della classe dirigente del Paese”, continua Lo Monaco tra gli applausi. Pietro Grasso, senatore ed ex magistrato, invece prende la parola tenendo un accendino in mano. “Me lo diede Falcone il giorno che decise di non fumare più – racconta – dicendomi ‘Restituiscimelo nel momento in cui dovessi ricominciare a fumare’. Purtroppo il tritolo non ha consentito questa possibilità. Porto avanti il suo impegno e quello di Paolo”, conclude, con un riferimento anche a Borsellino. Presenza costante anche il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che però non è salito sul palco.

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Il 23 maggio a Palermo è una giornata più intensa delle altre. Ma nonostante i lunghi preparativi, le celebrazioni nell’aula bunker e la festa del corteo, la città si ferma alle 17.58. È l’ora esatta in cui, il 23 maggio del 1992, l’auto che trasportava Giovanni Falcone si scontrò contro una strada trasformata in un muro d’asfalto e detriti. Via Notarbartolo si “spegne” e come in una reazione a catena tutte le strade vicine. La gente cambia volto, mentre i bambini sul palco pronunciano i nomi di chi è morto per lo Stato, “per noi”, come dicono in molti tra la folla. Poi il Silenzio suonato alla tromba e gli applausi che sembrano indicare come un altro tipo di silenzio non sia più la strada giusta, mentre viene suonato l’Inno di Mameli e il cielo si riempie di palloncini tricolore.

La manifestazione si chiude e lascia spazio a riflessioni e sfoghi. Mena Mattei è una maestra della scuola Giuseppe Fava, di Mascalucia (Catania), e racconta entusiasta che “ogni anno la scuola partecipa portando qui le quarte e le quinte classi. È un’esperienza consolidata a cui partecipano tutti con entusiasmo, e a cui noi docenti li prepariamo con laboratori e altre attività. Sono bambini, vanno portati a fare esperienza di legalità per ricevere il nostro testimone. Sono loro che domani devono agire”.

Più scettico Federico, 26 anni, che segue il corteo fin da piccolo. Per lui la manifestazione è stata anche troppo “soft”: “Mi è piaciuto l’intervento di Lo Monaco – spiega – perché secondo me ha centrato il punto più degli altri. Spesso, secondo me, questa manifestazione sconfina in tematiche che sì, ci possono stare perché rivolte a una massa, ma l’argomento è serio ed è sempre quello. Diventano snervanti le troppe generalizzazioni anziché l’affermazione costante e continua del pugno duro e di linee d’azione precise, cose che Lo Monaco ha trasmesso con pochi concetti ma diretti e pratici”.

Qualcuno, invece, critica i mezzi e ci tiene a separarli dal fine. Alessandro Anello, venuto al corteo con la moglie, la suocera e le sue due bambine, ha una posizione ben chiara: “La commemorazione è giusta, la ‘vetrina’ è sbagliata. Non serve a nessuno. Sarà la vicinanza delle elezioni…”. Per Anello, “il ricordo di quello che è successo è soprattutto un monito per le nuove generazioni. La storia dà i suoi consigli, bisogna saperli trarre. Io credo sia giusto ricordare chi ha dato la propria vita con una passeggiata, con un disegno come hanno fatto le mie bambine, con un fiore”.

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23 Maggio 2019, 20:38

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