11 Luglio 2012, 12:09
4 min di lettura
Era il 1982. Avevo solo venticinque anni ed ero un giovane medico ricco di sogni e di paure. Il Maestro aveva deciso di mandarmi a studiare presso il prestigioso National Institutes of Health (NIH) di Bethesda, un sobborgo di Washington. Allora il mondo era molto più grande. Non esistevano Internet o le TV satellitari che oggi ti consentono di ascoltare le voci di casa o di vedere i volti dei tuoi cari gratis. O di leggere il tuo quotidiano preferito come se lo avessi appena acquistato alla solita edicola sotto casa. Aspettavo per una settimana la telefonata della mia fidanzata; tutti i sabati alle nove del mattino. Una settimana d’attesa per quei cinque minuti che sembravano cinque secondi. E quando riattaccavo la cornetta, l’attesa iniziava di nuovo. La domenica mattina ascoltavo “L’ora dell’italiano” su una radio locale di Washington. Mi sorbivo le canzoni di Nunzio Gallo e Claudio Villa perché, mai allo stesso punto del programma, un tizio dall’accento napoletan-americano leggeva i risultati delle partite. Incluse quelle del mio Palermo. Era l’anno di Renna, quando l’eterno sogno della Serie A morì a primavera ucciso dalle due sconfitte consecutive per 3-1 sui campi di Varese e Pisa.
Condivisi i preparativi per seguire il Mundial spagnolo con Bechara, il mio amico brasiliano che viveva nel mio stesso residence e che ancora lavora lì. Ovviamente, la TV americana ignorava l’evento e ci adattammo a seguirlo sulla TV di Washington in lingua spagnola che rimandava il segnale della messicana Televisa “donde las estrellas brillan mas”. Gli orari non erano ideali per chi era lì per lavorare ed il segnale era molto debole. Approfittammo di un week-end per cercare una buona antenna e, dopo vari tentativi, scoprimmo che la ricezione era migliore dal suo appartamento. Montammo l’antenna nel terrazzino e, quando la notizia si diffuse tra gli italiani e i brasiliani di Bethesda, la sua stanza da letto si trasformò in una curva da stadio che cambiava colore, da azzurro a verde-oro, a seconda delle giornate. Fu così che imparai lo stile sudamericano delle telecronache con l’urlo del gol che dura almeno un minuto e termini come “saque de banda” (fallo laterale), “saque de esquina” (corner) e “fuera de lugar” (fuorigioco). E quando si materializzò la mitica Italia-Brasile del defunto Sarrià decisa dalla tripletta di Pablito e dal salvataggio finale di Dino Zoff (cuarenta anos de campeon) decidemmo da buoni amici che forse era meglio evitare tafferugli sul lettone. Noi italiani migrammo in campo neutro a casa del francese del piano di sotto che, plagiando la nostra scoperta, si era attrezzato anche lui. In fondo, noi tutti eravamo lì per “fare ricerca”.
La storica finale del Bernabeu non ci procurò problemi. Neppure di tipo televisivo. Gli americani della ABC, bontà loro, avevano deciso che potevano anche concedere due ore del palinsesto di una domenica pomeriggio di luglio ad un evento che paralizzava tutto il resto del mondo. Ci riunimmo, noi italiani, nella casa dal televisore più grande. Una brace accesa in giardino, le birre ghiacciate, qualche bandiera staccata dal muro della propria stanza, quel canto tutti insieme prima della partita. Per un attimo, pensammo che l’Oceano Atlantico si fosse prosciugato. Molti di quei “ragazzi di Bethesda” sono oggi illustri professori, qualcuno non c’è più. Tutti noi, emigranti privilegiati, quel giorno ci sentimmo davvero “Fratelli d’Italia”.
La partita finì come sappiamo. Chiamai mio padre al telefono e mi commossi nel sentire la sua voce rotta dall’emozione. Immaginando cosa stesse accadendo in Italia, cominciammo a gironzolare per le strade di Washington con i clacson strombazzanti e le bandiere fuori dai finestrini. Fino a quando una macchina della polizia si accostò alla mia Ford Maverick modello 1974. Evitammo la multa solo grazie al solito “cop” ispanico da telefilm che, conscio del valore della nostra conquista, indusse alla clemenza il collega irrimediabilmente yankee. La mattina successiva, il mio ingresso in reparto fu trionfale. Lo staff era composto in parte da giovani medici stranieri come me che avevano seguito la finale in TV al contrario degli ignari americani che compresero l’importanza della World Cup dopo essersi accertati della partecipazione dei sovietici. Tre francesi, due inglesi, un australiano, due giapponesi, un irlandese, uno scozzese. Per fortuna, nessun tedesco. Mi sentivo un eroe, io l’unico piccolo italiano from Palermo, Sicily. The homeland of Mafia.
Durante il briefing del lunedì mattina, il Capo sentenziò che era doveroso da parte mia organizzare un “Italian Celebration Party” da tenersi il successivo venerdì pomeriggio, prima del week-end. La mia settimana trascorse in preparativi: trovai sei bottiglie di Corvo rosso (sicilian wine) in una rivendita di downtown Washington, comprai una ventina di bandierine italiane e feci arrivare in reparto un intero assortimento di pizze familiari dal Pizza Hut vicino l’ospedale. Ebbi conferma dell’ignoranza degli americani quando uno degli infermieri mi chiese se davvero la pizza era “italian food” e non, come pensava lui, “american food with an italian name”. Mi rivedo in piedi, al cospetto di una pizza, a cantare orgoglioso in mezzo a tanti compagni di lavoro provenienti da tutto il mondo. Riascolto la mia voce, dopo trent’anni: “Frate-elli d’Ita-alia, l’Ita-alia s’è de-esta…”. Un’emozione che mai scorderò. Un motivo personale per ringraziare, una volta ancora, “il vecio” Enzo Bearzot che non c’è più e i suoi ragazzi. Che non sono più tali. Proprio come me.
Pubblicato il
11 Luglio 2012, 12:09