Il miracolo del siciliano | che fece leggere gli italiani

di

17 Luglio 2019, 09:21

4 min di lettura

“S’arrisbigliò malamente: i linzòla, nel sudatizzo del sonno agitato per via del chilo e mezzo di sarde a beccafico che la sera avanti si era sbafàto, gli si erano strettamente arravugliate torno torno il corpo, gli parse d’essere addiventato una mummia”. Correva l’anno 1996 e il grandioso incipit de “Il ladro di merendine” pubblicato da Sellerio fu una folgorazione per chi scrive. Il fenomeno Camilleri non era ancora esploso ai livelli stellari che avrebbe raggiunto da lì a breve. Lo scrittore empedoclino era ancora un fenomeno di nicchia, che s’andava allargando a macchia d’olio grazie a un robusto passaparola. Il linguaggio, la sua migliore invenzione, conquistava i lettori non solo siciliani. Da Bolzano a Reggio Calabria, al di là dello Stretto si cominciava a prendere confidenza con “taliate” e “cabbasisi”.

“Il ladro di merendine”, probabilmente il miglior romanzo della serie del Commissario Montalbano, seguiva a “La forma dell’acqua”, l’esordio (un po’ troppo smaccatamente sciasciano) del poliziotto burbero e tutto d’un pezzo, e a “Il cane di terracotta”, gustosa indagine su un delitto del passato che ruota attorno a una misteriosa caverna. Nello stesso periodo Sellerio pubblicava “Il birraio di Preston”, l’insuperabile perla camilleriana (“Sicuramente il mio preferito, ma non lo dica in giro”, mi disse nel 1997 quando ebbi il piacere di scambiarci due chiacchiere a Palermo), un’esilarante raffica di pennellate sulla Sicilia di fine Ottocento, anche qui con un incipit degno di nota: “Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa”, divertito omaggio al celebre incipit di Edward Bulwer-Lytton utilizzato dal bracchetto-scrittore Snoopy. Deliziosa leggerezza quella. Virtù non comune e spesso snobbata nel borioso e autoreferenziale recinto di una cultura da parrucconi. Quella che a Camilleri ha spesso guardato con una malcelata sufficienza.

Eppure, lo scrittore siciliano in questi anni è riuscito come nessuno nel miracolo dei miracoli: far leggere gli italiani. Un popolo che sovrabbonda di analfabeti funzionali, ultimo in quasi tutte le classifiche di lettura europee, si è lasciato sedurre dall’ironia – Dio lo benedica già solo per averci regalato Catarella – e dall’irresistibile pastiche siculo-italiano del vecchio Maestro, a cui il successo ha arriso in una stagione della vita in cui altri grandi si godono la meritata pensione. Era del ’25, si consacrò definitivamente come campione del best seller nel ’98, fate un po’ i conti.

Tradotti in un centinaio di lingue, i romanzi di Camilleri hanno venduto qualcosa come dieci milioni di copie. E sono diventati un piccolo archetipo per tanti autori italiani: provate a entrare in libreria e a sfogliare i romanzi gialli che escono a iosa nel nostro Paese. Troverete una quantità innumerevole di commissari burberi e onesti, severi ma giusti, solitari e grandi mangiatori, circondati da comprimari dall’eloquio claudicante, spesso ferocemente cazziati ma comunque apprezzati dal loro superiore che stimano incondizionatamente. Tutti, ma proprio tutti, figli suoi.

Abile era abile, Andrea Camilleri. Lui, uomo di teatro e televisione, sapeva come ipnotizzare lo spettatore, come dosare dramma e commedia, mistero e farsa. Con mestiere. Il suo commissario nella perfetta versione televisiva ambientata in una Sicilia quasi mitica e trasfigurata conquistò l’Italia come nessuno, collezionando a ogni prima visione sempre numeri di ascolti da Festival di Sanremo o finale dei mondiali di calcio. Un fenomeno senza pari, frutto anche dell’ottimo cast messo su per ricreare la Vigata del maestro, a partire da Luca Zingaretti. Montalbano è diventato così un’icona pop, trasfigurato persino su Topolino come “Salvo Topalbano”. Sì, Camilleri e il suo mondo sono ormai un pezzo di immaginario collettivo, un tassello del costume nazionale.

Articoli Correlati

Per prenderlo sul serio una certa intellighenzia si sforzò di esaltare l’anelito civile di alcuni suoi scritti, il substrato genuinamente di sinistra che ne emergeva (e che qualche sciacallo del web non gli ha perdonato fino all’ultimo con ripugnanti insulti vomitati sui social). Ma senza scomodare gli schemi vetusti e da rivista letteraria anni Cinquanta dell’“impegno”, la vera cifra artistica dello scrittore Camilleri, piuttosto resta, e probabilmente resterà resistendo al tempo, quella felicissima “levitas” che gli ha permesso di conquistare milioni di lettori in un Paese in cui tutti scrivono e nessuno o quasi legge. Provate a riprendere in mano “La concessione del telefono”, forse il suo gioiello più prezioso, in cui il carteggio epistolare che ruota attorno all’installazione di una linea telefonica privata nel 1891 diventa, in un tripudio di geniale umorismo, un ritratto leggero e spietato dei mali della Sicilia e dell’Italia tutta. Riuscire a farlo regalando tanti sorrisi è un mestiere tutt’altro che semplice, che mi fa accostare i primi libri di Camilleri a certi sagaci narratori catalani, come Edoardo Mendoza. D’altronde, fu proprio per omaggiare un barcellonese, l’amico Manuel Vasquez Montalban, che il commissario camilleriano prese quel nome.

“Nel momento in cui tre signori che si chiamano Eschilo, Sofocle ed Euripide hanno composto le loro tragedie, tutti noi scrittori, dai grandissimi ai minimi, non abbiamo fatto altro che vivere di briciole, di resti”, ebbe a dire una volta. Ebbene, con quei resti e quelle briciole, Andrea Camilleri ha saputo preparare pietanze succulente per tutti i palati, degne della cucina della mitica Adelina. E quelle, anche adesso che il maestro se n’è andato, rimangono lì a consolarci, proprio come la cena lasciata in caldo per Montalbano da mani premurose e benedette.

 

 

Pubblicato il

17 Luglio 2019, 09:21

Condividi sui social