Il papà di Di Maio? | Vi racconto del mio

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08 Dicembre 2018, 13:04

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In questi giorni mi è capitato spesso di pensare a mio padre. E non solo per le note vicende che hanno interessato Luigi Di Maio. Il fatto è che sempre più spesso accade che la gente, negli uffici, ma anche per strada, mi fermi chiedendomi se sono il figlio del Prof. Giuseppe Tinaglia. E’ per via della straordinaria somiglianza. Con gli anni è diventata davvero impressionante.

E quando rispondo affermativamente, vengo sommerso da una valanga di attestati di stima, per la sua rettitudine, la sua indiscussa onestà, le sue eccellenti doti di insegnante e di professore, e la sua straordinaria umanità. Io, naturalmente incasso con orgoglio, ma in realtà mi sento un tantino furfante. Perché al netto delle sue indiscusse e indiscutibili qualità umane e professionali, ricordo bene che, da ragazzo, non ero particolarmente innamorato della sua “onestà e rettitudine”.

Intendiamoci, non che mi sarebbe piaciuto vederlo dedito al traffico di stupefacenti o altre attività delinquenziali, però lo avrei voluto un tantino più spregiudicato, più furbo, malizioso, trasgressivo. Ma non c’era proprio verso. Ricordo che una volta si era davvero rallegrato con me quando avevo finalmente preso un 6 nella versione di latino, dopo una serie inenarrabile di 4. Non vi dico la delusione nel suo viso quando gli dissi, rivendicandola come una figata, che finalmente avevo trovato il modo di scopiazzare dal mio compagno. Non fu affatto contento, ed io mi stupii del suo stupore. Mi sottopose ad un regime di lacrime e sangue fatto di divieti e ripetizioni di latino per circa un mese.

Pensate un po’. A volte mi domando da cosa nascesse questo mio modo di essere. Non credo che fosse solo un fatto di ribellione adolescenziale. E’ che forse già allora (esattamente come oggi) non consideravo affatto l’onestà e la rettitudine alla stregua di valori dirimenti, in grado di segnare una linea di demarcazione che dividesse l’umanità in buoni e cattivi.

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Magari sbaglio, ma nei miei ricordi anche il clima sociale dell’epoca (parlo degli anni ’70) era diverso. Forse vivevamo in una società, più realistica, pragmatica ed indulgente. Ed anche più libera. L’esatto contrario di quello che accade oggi, ingabbiati, come siamo, in categorie etiche, di per sé nobili, ma declinate in un’insopportabile chiave integralista.

A volte, ancora, mi domando come, come abbiamo potuto ridurci così. Qualcuno ha detto che somigliamo sempre di più alla società americana. Credo che la riflessione colga nel segno e, per quanto mi riguarda, c’è poco da esserne orgogliosi. E’ da un pezzo che la scimmiottiamo. Peraltro, con scarsi risultati. Fatto sta che si è riusciti a trasformare l’onestà, uno dei tanti valori, in una sorta di albero al quale tutti, prima o poi, finiscono con l’impiccarsi con le proprie mani. E come se non bastassero le colpe individuali, si spulcia negli alberi genealogici alla ricerca delle colpe dei padri, degli affini, e pure dei collaterali. ​

Personalmente mi chiamo fuori da questo gioco un tantino primitivo, e che ha finito col divorare i suoi stessi inventori. Sono dell’idea di lasciare ai padri, e solo a loro, le proprie colpe. Ed anche le loro virtù.

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08 Dicembre 2018, 13:04

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