02 Settembre 2009, 00:53
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Il capitano e pescatore Salvatore Cifali, in fondo, ha solo una vocale di differenza rispetto a certe sveltissime creature che popolano le sue stesse rotte venate d’azzurro. Ma, come un cefalo esperto di conchiglie e alghe, il capitano che non ha i muscoli della canzone di De Gregori, a parte un cuore grande così, sa annusare i percorsi, il vento e le onde. Il capitano, lui sì, potrebbe navigare legato come Ulisse e fregarsene delle sirene. Il mare ha tasche infinite che contengono sempre le stesse cose: amore e dolore, basta saperlo.
Anni fa, era il giugno del 2006, Salvatore Cifali (nella foto), capitano del suo peschereccio Anadro, trovò sedici disperati in mare nel Canale di Sicilia. Altri undici erano stati inghiottiti dalla corrente. Sedici migranti in difficoltà.
Lui non guardò dall’altra parte come, presumibilmente, altri capitani che, invece, hanno scelto di abbandonare ai denti un orribile destino un barcone carico di eritrei alcuni giorni fa. Eppure il mare è grande non ci vuole niente a perdersi, o a fare finta. Salvatore Cifali, quel giorno, salvò tutte le vite disponibili e cercò di portarne a riva altre. E lo premiarono con parole di stima. Oggi, forse, lo considererebbero un favoreggiatore.
“Non so se è stato possibile che qualcuno abbia visto la barca degli eritrei e si sia fatto gli affari suoi – dice Cifali, sulla scorta di una cronaca tenebrosa -. Di solito, si segnala almeno la posizione dei disperati in viaggio, mantenendo l’anonimato”. Il capitano, invece, ci mise la faccia, il nome e il cognome, nel giugno del 2006. Tirò su un carico di mezzi morti sulla pancia del suo Anadro. Altri tempi. La solidarietà non confinava ancora col crimine. Cosa ne pensa dei respingimenti, del giro di vite, capitano? “Bè, qualcosa si doveva fare, non so se questo è giusto, però. In acqua ho visto troppi corpi gonfi, troppi morti. Si muore tra le onde, si muore nel deserto. E il cuore diventa tutto un dolore. Ho provato dolore per i ragazzi morti nel Canale di Sicilia. Io certe scene le ho vissute”.
Il pescatore di uomini non ha dubbi: “Lei mi chiede se salverei di nuovo quelle persone, quei tunisini, anche a costo di restare implicato? Me lo chiede sul serio? Certamente sì, anche se mi imbattessi in clandestini. Gli uomini devono essere salvati: bianchi, gialli, neri o rossi. Non riuscirei a fregarmene, è la legge del mare”.
Adesso per mare il capitano ci va poco. Ha aperto un magazzino, non naviga più con la sua piccola Folgore. Forse è un bene, forse no. “Il mare è duro, tremendo – confessa il capitano-pesce al cronista di terraferma -. Però sa cosa le dico? Mi manca. Mi manca assai”.
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02 Settembre 2009, 00:53