23 Maggio 2012, 09:08
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Ricordo la crosta del branzino al sale, sgranata di colpo dalla forchetta di Giovanni Falcone quando gli chiesi perché andava a Roma. “Per costruire il palazzo dell’antimafia”, rispose senza enfasi e senza retorica dopo lo scatto impercettibile delle posate affondate giù. Un sorso di vino bianco e continuò: “A Palermo ho fatto il muratore, ho sistemato una stanza. Adesso ci vuole un ingegnere a Roma. Perché una stanza imbiancata non basta”.
Ricordo lo scatto che seguì la domanda successiva, con il magistrato sempre pacato e controllato pronto ad alzarsi dalla tavola per afferrare un bottone della sua giacca quando evocai l’obiezione delle malelingue che non condividevano il passaggio al ministero, considerato quasi una resa al potere, un’assicurazione per la vita. Paura? Fu a quel punto che sattò. In piedi. Due dita strette al bottone. Consegnandoci una frase scolpita nella memoria: “Io sono un siciliano. La mia vita vale quanto il bottone di questa giacca”.
Il contesto era un tavolo sulla terrazza a vetri che guarda Ognina, il “Costa Azzurra” dai pentiti indicato come luogo amato dai boss di Catania. Per questo non l’avremmo mai sceltò né io, né i miei colleghi Attilio Bolzoni e Francesco La Licata quando, due ore prima, al tribunale di Catania, avevamo avanzato un invito a pranzo al nostro interlocutore diretto di tante inchieste seguite sin dai primi passi nei giornali, marchi indelebili di vita professionale. Eravamo partiti da Palermo all’alba del 28 febbraio ’91 per sentire Falcone nei panni di testimone all’ennesima udienza del processo per uno dei più gravi delitti eccellenti, il massacro del procuratore della Repubblica Gaetano Costa. Il giorno prima lui aveva ufficialmente lasciato la Procura diretta da Piero Giammanco. Epilogo di mille polemiche, di tante sorde incomprensioni con il procuratore capo, di guerre scatenate all’interno del Csm e negli uffici giudiziari di Palermo, di critiche feroci al giudice antimafia che aveva accettato l’incarico al ministero della Giustizia allora retto dal numero due di Craxi, il socialista Claudio Martelli. Quale migliore occasione di una pausa per riflettere tutti fuori dalla città dei veleni, da stanze e corridoi palermitani gonfi di sguardi obliqui. Ciccio e Attilio decisero che dovevo andare io in avanscoperta. Mi avvicinai a Falcone a fine udienza. “Ce lo mangiamo un buon pesce insieme?”. E lui: “E’ un invito a pranzo o una intervista?”.
“Intervista?”, echeggiai sorpreso, bugiardo, ma forse convincente. E lui, di rimando:”Pesciolino e vino, senza taccuino. Accetta?”.
“Affare fatto”, continuai a mentire, conoscendo i miei colleghi e me stesso. Fu lui a decidere: “Costa Azzurra, fra trenta minuti”. Una sorpresa per noi che non lo avremmo proposto per pranzare con il nemico numero uno di Cosa Nostra. Ma la vera sorpresa furono le facce dei camerieri, quando videro arrivare Falcone con la sua cartella di cuoio, preceduto e seguito da cinque guardie del corpo. Gli agenti rimasero a tiro, in un angolo, le spalle alla parete. Noi attorno ad un tavolo rotondo sul bordo della vetrata, sugli scogli di lava nera lucidati dalla risacca leggera che carezzava le barche dei pescatori. Sembrarono lontani mille miglia i veleni. E Falcone si rilassò davvero chiacchierando con i cronisti che assediavano i suoi giorni come fossero vecchi amici. Fu la conferma di una stima reciproca saldata nel tempo. Le chiacchiere e le battute non potevano deviare però dal tema che s’imponeva in quei giorni. E alla tormentata partenza per Roma approdammo.
Un’ora dopo, la sorpresa. Sulla soglia del ristorante comparve Piero Grasso. Falcone sapeva e attendeva. Era di passaggio pure lui, per lavoro. E s’aggregò consumando il branzino che bastò per tutti, in tempo per seguire lo sfogo del collega, dell’amico inseparabile.
“La mia vita vale quanto il bottone di questa giacca. Uno o è un uomo o non lo è.
Non penso alla morte”.
Sapevamo tutti che alla morte Falcone aveva dovuto pensare. Il ricordo del fallito attentato dell’Addaura era ancora vicino. Intuì ed assestò: “Quell’attentato non ha cambiato nulla nella mia vita. Non c’è un prima e un dopo”. Alla città che ossequiava e sparlava, nell’eco di voci e chiacchiere su quel “prima e dopo”, alle accuse di diserzione e tradimento lanciate da personaggi della vetrina antimafia Falcone replicava secco: “Io non ho nulla da dimostrare a nessuno. Chi lavora non ha bisogno di dimostrare ogni giorno qualcosa. Mi piacerebbe che tutti mi dicessero ‘quanto sei bravo’. Ma non è possibile, non si può piacere a tutti”.
Parlammo di Giammanco e Carnevale, di Greco e dei Corleonesi, dei boss liberati
dalla Cassazione e del decreto per ricacciarli dentro. Poi dei partiti: “Non c’è un partito del bene e uno del male. C’é una trasversalità, nel bene e nel male”. Senza appunti. Senza taccuini, naturalmente. Con punte di ironia spruzzate per smorzare tensione e commozione.
Come si sente facendo le valigie? “Come uno che si tuffa in un mare in tempesta. Per fortuna il nuoto è il mio sport preferito”. Ci salutò con un sorriso e una raccomandazione: “Abbiamo detto niente interviste, vero?”. Nessuno rispose.
Dieci minuti dopo correvamo tutti e tre in albergo, nella mia camera, davanti al mio computer, buttando giù tutto quello che ricordavamo. Vennero fuori cinque pagine di virgolettati. Su quelle avrebbe potuto lavorare ognuno scrivendo un articolo o un’intervista, pattuimmo fra noi. Ma sapevamo tutti che non avremmo potuto usare una sola parola senza il consenso dell’interessato. Bugiardi, ma non vipere. Sapevamo di non potere tradire l’uomo che si era fidato, che si era affidato a noi.
Sperammo che, in una sorta di franco gioco delle parti, forse Falcone aveva messo nel conto l’uso di alcune sue frasi, ma non sarebbe stato possibile avvertire i nostri giornali e chiedere spazio senza un suo diretto consenso di massima. A chi il compito di chiamare il giudice già volato via da Catania?
Gli sguardi di Bolzoni e La Licata caddero di nuovo sul sottoscritto. Non protestai. E telefonai balbettando che tutto sommato la conversazione era stata utile e in parte si prestava per una riflessione… Mi interruppe bruscamente: “Perché mi fido di voi?”. Perché sa che non sbaglia, azzardai. “Non una riga”. Solo due righe, insistetti. “Non più di due”. Era fatta. O comunque lo interpretai come un via libera. Il giorno dopo uscirono tre interviste. Mai smentite. Sempre citate, da allora. E, dopo la strage di Capaci, evocate con una puntata di Mixer ambientata da Giovanni
Minoli proprio al “Costa Azzurra”, con i tre bugiardi che raccontavamo quell’ultima chiacchierata a Catania. Attorno allo stesso tavolo. Con un posto terribilmente vuoto.
Dal mensile I love Sicilia, maggio 2007
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23 Maggio 2012, 09:08