14 Gennaio 2016, 18:59
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PALERMO– “Qui giace Francesca Morvillo, magistrato”. Una targa davanti a una palazzina del cimitero dei Rotoli di Palermo. Un mazzo di fiori bianchi nel vaso, un altro per terra. La tomba gentilizia è protetta da un catenaccio. Sbirciando, a sinistra, si vede una bara con alcune rose rosse. Un portafoto in argento: dentro c’è il sorriso di una donna – i capelli raccolti in un cerchietto – con l’espressione di sempre.
Quante forme può assumere il dolore? C’è il dolore del corpo che viene spazzato via da un taglio di luce, rapido e preciso come una fitta. C’è il dolore delle lacrime di chi ancora un corpo ce l’ha, a spiovere sulla dissoluzione. C’è il dolore quieto, non pacificato, ma raddolcito, che è diventato marmo, scorcio di cielo, albero e cespuglio da sepoltura. Il dolore di Francesca Morvillo – che amò Giovanni Falcone e ne condivise il destino – prima che la morte ne separasse le lapidi: lui nella basilica di San Domenico, a respirare l’aria caliginosa del Pantheon degli eroi, lei – adesso ai Rotoli – traslata da Sant’Orsola, secondo vicissitudini note.
Ma se dividi il domicilio finale di due, uniti dalla stessa sorte, è come se slabbrassi il tessuto della memoria privata e, in questo caso, anche pubblica. Portando un mazzolino di margherite alla dottoressa Morvillo, senti che ti manca il dottore Falcone; recitando un ‘Eterno riposo’ per Francesca, avverti che Giovanni è troppo distante. La legge dei Sepolcri non ammette deroghe: la rabdomanzia delle spoglie che sono deve rassomigliare alla vita delle persone che furono, altrimenti come rintracciare l’esile acqua di un ultimo contatto umano?
Troppo lontani sono. Il dottore Falcone che era un uomo brusco, inavvicinabile. Giovanni che era un formidabile inventore di dolcezze e barzellette. La dottoressa Morvillo, la compagna di viaggio e di rischio, di colui che fu l’uomo più vanamente protetto d’Italia. Francesca che scriveva bigliettini d’amore con la sua delicata grafia femminile. Lei cinta di una sensibilità non disarmata che le permetteva di tenere testa agli sbalzi di umore di un magistrato dall’esistenza incatenata e di raccoglierne le amarezze per un accerchiamento che veniva dall’esterno e dall’interno del Palazzo. Lui che, a un certo punto – dopo la nomina ministeriale a Roma – aveva sognato di smetterla con gli affanni, nella speranza di un luogo più tranquillo. E quando li uccisero, sulla strada verso Capaci, un ragazzo della scorta, Gaspare, colse l’ultimo guizzo degli occhi di Giovanni Falcone. Poi, avrebbe raccontato: “Non ho mai visto nessuno soffrire così”.
Ora Francesca Morvillo riposa qui, nella sua dimora, ai Rotoli. Non c’è Giovanni Falcone; ci sono altri vicini di sepoltura. C’è un elefantino annerito dal tempo, scottato dal sole, bagnato dalla pioggia. Oggi ha quattordici anni, gli stessi che avrebbe il bambino morto dopo pochi mesi a cui il suo eroico peluche dalle orecchie grandi monta un’infaticabile guardia.
C’è un signore dal cipiglio garibaldino che scruta severo la nuova arrivata: lui morì che lei non era ancora nata nella grande tombola cimiteriale del rimescolio di numeri e biografie. Ci sono quattro tombarelle scrostate, ‘sgarrupate’: i nomi si leggono a malapena. Poco più in là, c’è un’infiorata rosanero per un giovane tifoso del Palermo.
Ci sono pure i vivi. Non passano in tanti da quel tratto, perché è discosto dalle strade principali. Alcuni camminano distrattamente. Altri leggono “Qui giace…”, ci pensano su, infine realizzano, ma si vede che è come se percepissero una mancanza, un buco della memoria che è sempre – la memoria – un affare serio di cimiteri, di intimi colloqui, di sussurrati pater noster, di sguardi scambiati con l’invisibile, di legami indissolubili. Francesca e Giovanni. Ma ecco che un sorriso si schiude nel portaritratto in argento. Ecco che il filo della tenerezza ricuce lo strappo.
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14 Gennaio 2016, 18:59