11 Gennaio 2018, 19:19
5 min di lettura
Nei giorni scorsi ho letto con grandissimo e compiaciuto interesse (Il Venerdì del 5-1-2018) un articolo dal titolo “ Il sesso senza barriere”.
Dico compiaciuto, perché quello della sessualità per i disabili è un vecchio pallino che avevo sempre tenuto nascosto. Come quei pensieri che di tanto in tanto fanno capolino e che tu ti affretti a reprimere perché li consideri frutto di tue ossessioni anche un tantino “sporche”. Beh, il pezzo di Lucio Luca (autore dell’articolo) me lo ha tirato fuori, questa volta definitivamente, dalle secche dell’indicibile.
Credo che mi tocchi raccontarvi un paio di cosette. Ho avuto una esistenza piuttosto complicata che mi ha portato a vivere a stretto, strettissimo, contatto con il mondo della disabilità, ed è per questo che sono stato un assiduo frequentatore delle Comunità Terapeutiche assistite. Parlo di quelle strutture extraospedaliere, nate a seguito della riforma Basaglia, alle quali accedono, per un tempo limitato, soggetti affetti da problemi mentali per quella che viene chiamata “riabilitazione psichiatrica”. Mi capitava così di incontrare ragazzi di 20-30 anni, vagare come automi e con lo sguardo perso nel vuoto negli spazi delle strutture, annoiati, incupiti, tristi, intenti, a tutto voler concedere, a trastullarsi con lavoretti artigianali, statuette di ceramica, oggetti in legno o con improbabili karaoke. Non so se rendo l’idea: giovani di quell’età, nel pieno dei loro desideri e delle loro impetuose sessualità a baloccare con le barchette o i posacenere di ceramica o canticchiare “Felicità” di Albano e Romina. E quale antidepressivo avrebbe mai potuto sottrarli alla loro cupa tristezza mi chiedevo, quale seduta con questo o con quel terapeuta della riabilitazione avrebbe potuto mai infondergli la gioia di vivere, la capacità di guardare al futuro, di ridere e sorridere e di riappropriarsi dell’esistenza o solo di suoi scampoli.
Questo ed altro mi domandavo. E sapevo bene che si trattava di domande del tutto retoriche, perché nella mia sfrontata presunzione la risposta era invece lì, a portata di mano: andassero pure bene pillole, goccine, sedute terapeutiche, attività ricreative.. Ma il solo modo, quello risolutivo, quello davvero efficace, quello che doveva essere assolutamente inserito nei progetti individuali di riabilitazione, non poteva che essere quello di assicurare periodicamente a questi giovani una sana, liberatoria, balsamica scopata. Tutto questo, naturalmente, non andava oltre i miei dialoghi interiori.
Eppure una volta trovai il coraggio di parlarne con un operatore, un tecnico della riabilitazione. La presi larga partendo dal film “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e gli chiesi, tra il serio ed il faceto, quanto sarebbe stato salutare secondo lui, soggetto qualificato, riuscire ad organizzare proprio lì, in quella comunità, una serata tutta a base di sesso. Niente alcolici, naturalmente. Solo Coca Cola ed aranciata. Per far provare ai giovani degenti quei momenti di autentica intesa relazionale in nulla dissimili da quelli che le due prostitute del film, nello squallido contesto di un manicomio, avevano regalato a Billy Bibit, quel personaggio che era riuscito, dopo una notte di fugace felicità, persino a smettere di balbettare. O a Denny De Vito, teneramente abbracciato ad un’allegra e disinibita ragazza durante un romantico ballo dopo una serata all’insegna della trasgressione. Lui mi guardò un po’ sorpreso, consegnandomi però subito la sensazione che la mia proposta avesse avuto per lui l’effetto di elemento catalizzatore. Non sbagliavo. Mi disse subito che un’esperienza di quel tipo avrebbe portato enormi benefici a quei giovani che, in ragione delle loro condizioni, non avevano più alcuna relazione affettiva e sessuale o forse non l’avevano mai avuta.
Si, volendo, si poteva anche fare. Un pulmino con a bordo una decina di prostitute le quali, beninteso,-così mi disse- avrebbero dovuto essere preventivamente preparate su come prendere gli ospiti della struttura dal verso giusto. “Sempre che quello di cui dispongono non sia più che sufficiente” mi affrettai a chiosare.
Tornammo nell’argomento anche nei giorni successivi, magari ridendoci sopra, che era il solo modo per parlarne seriamente, implementandolo con varie possibili strategie e ogni volta pervenivamo alla conclusione che, si, si poteva anche varare l’ambizioso, rivoluzionario e forse velleitario progetto.
Naturalmente non se ne fece nulla. Troppi i rischi di un’ operazione che avrebbe dovuto, per forza, coinvolgere anche altri operatori, infermieri, e dispiegarsi in condizioni di assoluta clandestinità. Troppe variabili, troppe incognite per rischiare il posto di lavoro e qualche problema di carattere penale.
Eppure il solo fatto di averne parlato e di avere trovato un’adeguata e qualificata sponda, ebbe per me una sorta di effetto catartico. Argomento sdoganato, insomma. Poi, negli anni successivi, mi capitò tra le mani un bellissimo libro: L’Accarezzatrice” di Giorgia Wurth. La storia di un’infermiera che perde il posto di lavoro. Un giorno vede un annuncio: “cercasi infermiera di spiccata sensibilità”. Era di una donna, malata di sclerosi multipla che cercava “un’assistente sessuale” per suo marito, anche lui invalido.. E da lì, inizia per la protagonista la scoperta di un pianeta prima sconosciuto, quello della sessualità negata ai disabili. Ebbi così la conferma che la mia idea aveva un fondamento scientifico oltre che meravigliosamente umano.
Da ultimo, leggendo l’articolo di Lucio Luca, ho appreso che l’argomento è di stringente attualità e che, addirittura, c’è una proposta di legge che, naturalmente in termini assai meno disinvolti e trasgressivi, istituzionalizza, in qualche modo, quel mio vecchio pallino.
Lo sublima.
Lo purifica.
E mi consegna, forse solo mi disvela, un amaro rimpianto.
Se soltanto, se solo, fossimo stati più coraggiosi, in quella Comunità.
Dio, che meraviglia!
Pubblicato il
11 Gennaio 2018, 19:19