02 Febbraio 2014, 00:48
4 min di lettura
11 luglio 1982, Italia campione del mondo, un trionfo tinto d’azzurro, il colore del cielo, dello spazio infinito dove nuvole giocano a rincorrersi senza ostacoli come i sogni di un animo burlone e coraggioso. Quella sera, ancora una volta, il calcio ha dimostrato di avere un’anima, di custodire in sé poesia, di saper trasmettere storie di vita ad un bambino di appena sei anni innamorato del pallone attraverso i volti dei magnifici interpreti in maglia azzurra, perfetta combinazione di talento, compattezza, e cuore tipicamente italiano, uomini dall’espressione austera come Zoff e Scirea, il rude Gentile, il Bell’Antonio, la zazzera ribelle di Bruno Conti, lo sguardo quasi incredulo di Paolo Rossi.
Eppure il calcio talvolta può assumere la veste magica della parabola ed in quella sera di luglio nessuno dei ventidue giocatori in campo più di quel difensore appena diciottenne dall’improbabile baffo per apparire più grande tra i grandi, può esserne l’interprete più stimolante. Per un bambino con il pallone sempre tra i piedi come un talismano, cresciuto con le lezioni impartite dagli avversari nei cortili con palloni e porte improvvisati, quei giorni furono vissuti sull’esempio di quel ragazzone chiamato “Zio”. Serietà, talento, possibilità di conseguire ogni traguardo, anche i più insperati, per chi ci crede e sacrifica ogni risorsa, abnegazione nel superare ogni difficoltà incontrata sul proprio cammino, voglia di cimentarsi con i migliori ammirandone il talento e imitandone l’esempio per far fruttare le proprie capacità attraverso impegno e sacrificio, crescere sull’esempio del passato per costruire il proprio futuro senza bruciarsi, conquistare la fiducia di chi ha il coraggio di scommettere sulle capacità dei più giovani anche nelle sfide più importanti.
Per anni quel bambino è cresciuto con quell’esempio, accompagnato da un bagaglio di aspettative sempre più ingombranti, di promesse, di obiettivi, dalla tossica illusione che l’impegno ed il merito avrebbero permesso di realizzare i propri obiettivi e, perché no, anche i propri sogni. Trent’anni e si sente tradito da tutti coloro che quella sera vide uniti nell’accompagnare la corsa a braccia aperte di Tardelli in quell’urlo liberatorio di riscossa, quel trionfo ha lasciato in eredità l’illusione che una grande squadra fosse lo specchio di un grande Paese. Il viaggio nel tempo lo ha lasciato esausto, come un naufrago su una spiaggia deserta, impreparato e deluso esponente di una intera generazione chiamata ad essere migliore rispetto a quella che lo ha preceduto, frustrata per non aver saputo, o potuto, rispettare le attese, le aspettative che gli altri vi avevano riversato.
Si sente come un orologio fuori tempo, sempre in ritardo, accompagnato dalla costante sensazione di giungere ad una festa quando ormai tutti sono andati via e rimane sono l’eco distorto di un festeggiamento ormai dimenticato in cui anche la percezione dei suoni e dei colori risulta distorta, attutita dalla delusione e non resta che rincasare con il consueto bagaglio di aspettative infrante. Ambizioni ed obiettivi custoditi per anni come tesori in un forziere si sono rivelati solo monete fuori corso in un mondo in cui tutti pensano di potere, e sapere, fare tutto dinanzi a chi, però, da loro non si aspetta nulla.
L’idea a lungo coltivata di poter avere tutto, adesso si scontra con la necessità di rinunciare a tanto, forse a troppo, la corsa alla rivendicazione dei propri diritti, ha fatto dimenticare la consapevolezza di avere anche dei doveri e delle responsabilità. Scomparso il merito, il paradosso di un sistema che da palude che impediva ai più meritevoli di andare avanti e lasciarsi alle spalle la zavorra dei mediocri, adesso sembra essersi trasformato in salvagente per i meno meritevoli. Tutti a galla, stancamente avanti senza meta, nessuno lasciato indietro, pochi promossi, ma nessun bocciato, è uguaglianza al ribasso.
L’asticella scivola sempre più in basso, disimpegno è la parola chiave, nessuna responsabilità individuale in nome della responsabilità collettiva, tutti responsabili, quindi a nessun responsabile.
Militiamo per cause nobili ma a basso costo e, come medaglie sul petto di un generale ormai in pensione, collezioniamo riflessioni virtuose sull’onda dell’emozione del momento, in prima fila nella processione virtuale a favore dei più disgraziati del globo siamo, però, incapaci di dedicare tempo e considerazione a chi ci sta accanto, sventoliamo agende colorate e facciamo girotondi in nome della legalità che magari quotidianamente continuiamo a tradire nei gesti più piccoli, quelli più importanti. Figli che non saranno mai padri alle prese con genitori tornati adolescenti, il tradimento proviene da coloro sui quali hai riposto la tua fiducia. Incapaci di vivere il tempo, lo divoriamo, bulimia emozionale, collezioniamo esperienze senza godere della pause che servono a farle maturare per poterne apprezzare il valore.
Rapporti interpersonali come variabili impazzite, affidati al caso, ci ritroviamo a parlare senza dire niente, restiamo in attesa del Profeta di turno per sentire ciò che ci sta intorno nella quotidiana indifferenza. Abbiamo conosciuto un comico che in tv distruggeva un computer a colpi di martello perché ci impediva di comunicare e adesso lo ritroviamo ad urlare su un blog per dare a tutti lezioni di democrazia. E’ proprio vero che, come scrisse Zafon, “ci sono epoche e luoghi in cui essere nessuno è più onorevole di essere qualcuno”.
Pubblicato il
02 Febbraio 2014, 00:48