20 Maggio 2014, 18:18
1 min di lettura
La stazione ferroviaria più chic è quella di Palermo. Si entra e ci si dirige verso l’atrio. Si consultano i tabelloni con gli orari e le destinazioni, si va verso i binari, certo, com’è normale che sia, ma poi nessuno staziona alla stazione di Palermo per prendere il treno. A fianco della strada ferrata, dentro il recinto delle Ferrovie dello stato, c’è il piazzale interno con gli autobus. Non ha senso, infatti, prendere un treno per Siracusa. Impiegherebbe almeno otto ore. E qualcosa come cinque e mezzo – di ore – ce ne vogliono per arrivare a Catania. Così anche per Messina.
Un percorso ferroviario, in Sicilia – da Trapani a Taormina, faccio a esempio – dura quanto la Transiberiana ed è per questo che i pendolari preferiscono l’autobus in quel parcheggio a pettine dove strillano festose le destinazioni: Enna, Ragusa, Ravanusa, Caltanissetta… E’ una struggente malia quella della modernità in Sicilia. Più che un pubblico servizio, è quasi un’istallazione d’arte contemporanea. E sarà per questo che nella vicenda del destino intrecciato dei parlamentari Matacena e Genovese – laddove la famiglia del primo ha venduto alla famiglia del secondo l’azienda dei collegamenti dello Stretto di Messina – altra capriola del fato non si può trovare che nell’esito degno di Eugène Ionesco. Giusto il teatro dell’assurdo: hanno arrestato il traghetto.
“Il riempitivo” dal Foglio
Pubblicato il
20 Maggio 2014, 18:18