11 Novembre 2010, 21:07
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Scrive Marco Travaglio su “Il Fatto” (l’articolo intero QUI) Non c’era bisogno di scomodare lui per dire che Falcone era un uomo giusto e per questo fu vilipeso in vita e beatificato post mortem: tutte cose ampiamente risapute. Da Saviano ci si attende che parli dei vivi, non dei morti già santificati: cioè di quei personaggi (magistrati, ma non solo) che oggi rappresentano una pietra d’inciampo per il regime e proprio per questo, come Falcone, vengono boicottati, screditati e infangati appena osano sfiorare certi santuari”.
E’ appena una delle frecce avvelenate lanciate oggi da Marco Travaglio a Roberto Saviano. Ed è la più importante, quella che reca le tracce di un ragionamento da sabotatori. Premessa logica e necessaria: lo scibile dei possibili interventi civili è vasto, perché vastissime sono le fratture nella storia o nella cronaca italiana. Scegliere un argomento non comporta dunque lo scatto automatico dell’accusa di omissione nei confronti di tutto il resto.
Ci pare che l’operazione culturale di Roberto Saviano sia stata tutt’altro che semplice. Di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si parla, di solito, con altri accenti. Sono ormai figure coperte dal sudario della retorica di Stato, fondi di magazzino. Non c’è quasi mai – nel frastuono della gioiosa marcia funebre anniversaria – una riflessione lucida sui loro tempi. Abbiamo gli eroi. Non abbiamo più gli uomini.
Saviano questa riflessione l’ha compiuta. Ci ha mostrato un contesto di diffidenza e di antipatia nei confronti di Falcone. Noi lo sapevamo, qualcun altro avrà fatto un balzo sulla sedia. Cose risapute da chi? Dai generosi e rumorosi ragazzi deportati alle manifestazioni in via D’Amelio e a Capaci? Dalle ignare maestre che li accompagnano e che sono l’involontario mastice di una scrittura distorta dei fatti gradita ai cantori ufficiali? E anche se fosse, ripeterle, secondo noi, avrà giovato a molti. Lo scrittore di Gomorra ha affondato il bisturi nell’ipocrisia e ne ha tratto una lezione attualissima sui rapporti tra politica, consenso e magistratura.
“Da Saviano ci si attende che parli dei vivi, non dei morti già santificati”, si legge. Come se il recupero della verità valesse di più per i vivi e non fosse una luce preziosa ovunque. Come se i morti “santificati” (da chissà quale Papa) dovessero subire il silenzio che – fatalmente – scolorisce contorni e contenuti. Sono morti, sono meno importanti nella gerarchia dell’attualità antiberlusconiana. Amici adepti del Travaglismo, non è un’offesa? Per noi, invece, i morti sono cari e utili per la comprensione del paesaggio che ci regalano, anche se non ci sono più. E certi morti, come Giovanni Falcone, hanno ancora un respiro più forte di taluni vivi…
Ma poi cosa si vuole? Dopo tanta melassa si intende forse negare al giudice Falcone un racconto finalmente schietto e popolare, una trama finalmente leale e “da prima serata” dei suoi anni, delle sue difficoltà e delle sue amarezze? E’ un’operazione che somiglia davvero all’ultima offesa a un magistrato che di stimmate ne subì fin troppe questo sottrargli, per interposta e stucchevole polemica, l’esatta misura. E’ come volere condannare Falcone all’assenza perpetua di memoria, inserendolo nel listone degli argomenti “già trattati” che nulla possono dirci. O eroe di plastica, o cenere. O cartone animato del giustizialismo o l’oblio.
Scrive ancora l’inquieto giornalista: “Il fatto che Falcone sia un martire cristallino della lotta alla mafia non significa che non abbia mai sbagliato in vita sua. Il suo primo progetto di Superprocura (assoggettata al governo) disegnato con Martelli suscitò la rivolta di centinaia di magistrati, Borsellino compreso”. Abbastanza vero. Tuttavia, questo tagliente giudizio postumo rende più solida una nostra vecchia idea: la vita e le opere di Giovanni Falcone e le battaglie di Marco Travaglio non staranno mai dalla stessa parte.
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11 Novembre 2010, 21:07