11 Agosto 2015, 06:00
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Gentile Beppe Grillo, prima di allontanarsi dal Movimento da lei fondato – così leggo sui giornali – abbia la cortesia di interrompere le sue ferie e di tornare subito in Sicilia. Ben tre fiori di Trinacria – Sergio Mattarella, Pietro Grasso e Angelino Alfano – sono ai vertici delle Istituzioni ma tutti e tre, l’avrà notato, a parte per le commemorazioni, di Sicilia non ne parlano. Nessuno sembra accorgersi di quello che succede e siccome alle prossime elezioni regionali il suo partito, di questo passo, vincerà (pur arrivando secondo, dopo il partito dell’Astensione), le chiedo di venire presto perché questo trionfo elettorale sarà inutile. E anche dannoso.
Inutile perché nessuno crede più alla redenzione e dannoso perché vincendo il M5S erediterà solo il default. In un disastro sociale ed economico che si trascinerà, con la buona fede dei suoi giovani militanti, la possibilità di fare politica. Conquistare palazzo dei Normanni e palazzo d’Orleans – rispettivamente sede del parlamento e del governo di Sicilia – non sarà che la replica di un già visto. Ricorda la scena di Giancarlo Pajetta, facinoroso capo comunista, che prende possesso della Prefettura di Milano? Alza il telefono e chiama Palmiro Togliatti, il suo capo. In un’apoteosi di bandiere rosse comunica l’avvenuta espugnazione ma ne riceve un laconico “bravo, e adesso cosa te ne fai?”.
Come Togliatti, gentile Grillo, anche a lei non resterà altro che dire “bravi, adesso cosa ve ne fate?”.
Non sarà, infatti, un nuovo presidente di Regione a salvare la Sicilia. Con tutta la buona fede, con tutta l’onestà, non potrà che fare peggio del suo predecessore. Il pronto soccorso della Sicilia – le cui condizioni di Pil e i tassi di disoccupazione, al netto della presenza criminale, sono più gravi della Grecia – non passa dalle elezioni ma dalla decisione, tutta politica, di aprire una stagione per ottenere tre obiettivi: la caduta del governo Crocetta, la nomina di un commissario straordinario dello Stato e, in secondo tempo, la cancellazione dello Statuto Speciale.
Venga presto, Grillo. Ci sono due occasioni da cogliere. C’è da mettere fine all’impostura di Rosario Crocetta. E i suoi parlamentari in Sicilia, invece di farli restare appollaiati agli scranni di palazzo dei Normanni, li faccia dimettere. Neppure i deputati della destra hanno saputo seguire Fabrizio Ferrandelli, il giovane esponente del Pd che non ha esitato a dare le dimissioni non potendo restare un minuto di più in un’istituzione al cui vertice c’è Crocetta, e la provochi dunque, questa slavina di dimissioni. Servirà a smascherare la complicità di novanta eletti – di governo e di opposizione – aggrappati allo stipendio e non certo al destino della Sicilia.
Venga, Grillo. C’è da fare politica e non propaganda. Dopo l’abbraccio tra il Capo dello Stato e Manfredi Borsellino – dove quest’ultimo difende dalla Rrreggione la sorella Lucia, costretta al pari del padre “a sopportare la Croce dell’isolamento” – ogni atto legislativo di Crocetta è carta straccia. E venga dunque, Grillo, perché c’è da dare contenuti alla discussione aperta sul Titolo V della Costituzione. E il suo Movimento, invece di acchiappare farfalle lungo la trazzera di Caltavuturo (che non risolve il problema della Sicilia tagliata a metà, piuttosto ne fa colore), deve mostrare la sua nobilitate costringendo Matteo Renzi a cancellare l’autonomia regionale, ovvero la prima acqua in cui nuotano mafia e malaffare. Si cancelli, infine, l’Autonomia. E ci si apra a due possibilità: o diventare uguali agli altri, o – perché no? – diventare indipendenti. Nella responsabilità di una consapevole volontà popolare. Altro che reddito minimo garantito.
E’ impossibile governare la Sicilia col ricatto del consenso. Tutto quel c’era una volta, c’è ancora. Nel 1971, a palazzo degli Elefanti, sede del Municipio di Catania, alle 7.30 del mattino, immancabilmente, si presentava un tipo, timbrava il cartellino e però, andandosene subito dopo, urlava agli impiegati: “Schiavi, voi restate qui a lavorare e io me ne vado a passeggiare”. E faceva tiè, col braccio.
Una scena quotidiana diventata presto insopportabile per i dipendenti dato che il tipo ripeteva l’irripetibile epiteto – schiavi! – alle guardie, ai commessi e anche al capo ufficio a cui, riservando un trattamento speciale, diceva: “Lei è il segretario comunale? Me ne compiaccio. Veda però di andare a fare in culo. Io me vado a passeggiare”. Non era un pazzo, era un dipendente e il fatto venne riferito al sindaco, Turi Micale che, alle 7.30, sollecitato da tutti, ebbe ad attendere nell’atrio del Municipio per intervenire: “Come si permette? Vada a lavorare!”. Tutti, felicitandosi, si strinsero intorno al sindaco ma la risposta di quello si svelò in un crescendo: “Lei è il sindaco? Me ne compiaccio. Veda però di andare a cacare. Io me ne vado a passeggiare”. Davanti a quell’insolenza Micale diede disposizione di redigere la lettera di licenziamento, se la fece portare sulla propria scrivania, dopo di che, cercando in una cartella grigia di sua continua consultazione, per un po’ fece il confronto tra l’uno e un altro foglio.
Quello del licenziamento e quello – tutti sapevano cosa fosse – con l’elenco dei raccomandati. Il nome del vastaso coincideva con il primo della lista. Segnalato da Nino Drago, potente boss della Dc. Micale segnò col dito la prima riga dei raccomandati, quindi controllò ancora – con la penna puntata sopra – il nome del reprobo da licenziare, tirò un sospiro, buttò la biro e disse: “Non so voi, ma io me ne sto andando a cacare”. Ecco, quel che c’era una volta, c’è ancora.
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11 Agosto 2015, 06:00