Ilardo, un caso "da scuola" - Live Sicilia

Ilardo, un caso “da scuola”

Processo Mori
di
4 min di lettura

Il caso Ilardo, il confidente infiltrato in Cosa nostra che voleva portare gli investigatori da Provenzano, era “da scuola”, insegnato agli allievi ufficiali come modello operativo. Un caso concreto su come si debba operare. Lo ha affermato in aula il maggiore Giovanni Sozzo, comandante del Ros di Catanzaro, al processo contro Mario Mori e Mauro Obinu per la mancata cattura di Bernardo Provenzano del 1995. Testimone chiamato dalla difesa dei due ufficiali, insieme al colonnello Umberto Sinico. Ambedue erano uomini al servizio di Mori.

Giovanni Sozzo è stato a Palermo dall’ottobre 1998 al settembre 2005. Sull’onda emotiva delle stragi del ’92-’93 ha deciso di arruolarsi nell’Arma e far parte del Ros, la squadra che aveva catturato Riina. L’aveva sempre desiderato tanto da formarsi, parallelamente al regolare addestramento alla scuola ufficiali dell’Arma, sotto la guida di mani esperte come quelle di Sergio De Caprio, il capitano “ultimo”. Ore e ore a studiare carte, interrogatori, processi per focalizzare al meglio l’approccio alle indagini antimafia.

Fra queste “lezioni” c’è anche il caso di Gino Ilardo, nome in codice “Oriente”, il confidente che in continuo contatto col colonnello Michele Riccio, stava portando il Ros a mettere le mani sul latitante numero uno: Bernardo Provenzano. Così Sozzo ricostruisce il caso: “Una fonte confidenziale riferisce la notizia dell’incontro col latitante. Era stato convocato, si sapeva il luogo dell’appuntamento, un bivio. Per cui è stato predisposto un servizio di acquisizione di informazioni: le priorità erano la tutela della fonte e dell’obiettivo, ovvero il latitante. Tutti gli elementi forniti – la fonte sosteneva che forse si sarebbe incontrato col latitante – non erano abbastanza per pianificare un blitz. E quindi era meglio soprassedere che bruciare l’obiettivo. Un’occasione anche per vedere il contesto associativo. Il confidente poteva essere preso e portato lì, a poca distanza, oppure dall’altra parte dell’isola. Non lo sapevamo, non si potevano predisporre i mezzi. Quindi la conclusione è stata quella di lasciar fare l’incontro e fare attività informativa aspettando quindi il secondo incontro. Non si poteva intervenire alla cieca”.

“Prassi e insegnamento” continua a ripetere Sozzo, che parla di rapporti quasi giornalieri fra ufficiali e magistrati. Il pm Nino Di Matteo, nel controinterrogatorio, domanda se fra queste prassi ci fosse anche quella di non informare l’autorità giudiziaria di un evento importante come l’incontro fra la fonte e il latitante. Il testimone diventa rosso, ride nervosamente, si rivolge alla corte e dice: “Mi sta rimproverando”. La tensione diventa palpabile in aula, il pm chiede l’intervento del presidente, Mario Fontana, che invita Sozzo a non ridere. Tutto si conclude con le scuse dell’ufficiale che dice di non sapere se il dato sia stato o meno comunicato al magistrato ma spiega che “le attività legate alle fonti confidenziali non sono un dato investigativo obiettivo”. Sempre secondo la prassi insegnata a Sozzo, il pm chiede chi sia deputato a interfacciarsi col magistrato. “Il comandante del reparto, al massimo insieme all’ufficiale che cura il rapporto confidenziale”. Una sorta di autogol secondo l’accusa. Il presidente, infatti, fa presente che, per quanto emerso nel processo, nessuno ha dato notizia al magistrato titolare dell’inchiesta dell’avvenuto incontro fra Ilardo e Provenzano. Il testimone spiega che “spesso è meglio ritardare l’informazione che azzardare”. Il presidente chiede anche se si ravvisi un’indagine tardiva su Giovanni Napoli, l’uomo che aveva preso Ilardo al bivio portandolo da Provenzano, arrestato solo nel 1998. “Non ricordo”, risponde il testimone.

Prima ancora di Sozzo sul banco dei testimoni si è seduto il colonnello Umberto Sinico, che a Palermo ha svolto indagini nel periodo “caldissimo” degli anni ’80 fino a essere trasferito per motivi di sicurezza nel 1992. Il suo nome, infatti, era nella lista delle persone a rischio, a fianco  di Paolo Borsellino. Ha parlato delle indagini che già nel 1983 (rapporto Gariffo Carmelo +14) avevano individuato il reticolo di società riconducibili a Provenzano e gestite da Vincenzo D’Amico e Pino Lipari. Di come l’intestazione dei rapporti antimafia, per motivi di sicurezza, fossero in capo a tale “nucleo operativo prima sezione” a copertura delle persone del nucleo anticrimine che erano i reali operatori, una tecnica sperimentata nella lotta al terrorismo. E ha parlato di quella informazione circostanziata che il maresciallo Antonino Lombardo aveva appreso da un colloquio investigativo in carcere: era arrivato l’esplosivo per Borsellino. Una notizia fatta recapitare immediatamente al magistrato che, nonostante tutto, ha deciso di andare avanti per la sua strada. E ricorda quell’ultimo incontro, quella “cena degli onesti” come l’avrebbe chiamata Borsellino in cui il magistrato ha incontrato gli uomini dell’Arma, prima di morire in via D’Amelio.

Un’informazione che è stata subito riportata “in una nota informativa a tutta l’Arma con al sintesi di quel colloquio”, ha precisato l’imputato Mauro Obinu, alla sua prima dichiarazione spontanea, dopo le numerose del suo collega Mori.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI