16 Luglio 2013, 20:57
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PALERMO – Arrestato, scarcerato, prosciolto ma licenziato dal comune di Palermo. Ora, però, deve essere riassunto. Antonio Giuseppe Genovese, impiegato del Coime, ha vinto la sua lunga battaglia. Il giudice d’appello della sezione lavoro ha dato ragione agli avvocati Salvatore Centineo e Michele De Stefani.
Nel 1996 Genovese entra in servizio come operatore Coime alle dipendenze del Comune con la qualifica di commesso del settore Urbanistica edilizia privata. Il 25 novembre del 2011 finisce agli arresti domiciliari assieme ad altre quattro persone. Secondo la Procura, il commesso faceva parte di una banda che in cambio di tangenti avrebbe agevolato il rilascio delle licenze allo Sportello unico. Da qui l’accusa di corruzione. Il 7 dicembre Genovese viene sospeso dal servizio. Il settore Risorse umane di Palazzo delle Aquile apre il procedimento disciplinare che Genovese chiede venga sospeso in attesa che si definisca quello penale. Nel frattempo all’impiegato vengono concessi prima gli arresti domiciliari prima e l’obbligo di dimora, che decade dopo alcuni mesi.
Una richiesta non accolta. Il 26 aprile scatta il licenziamento “per giusta causa senza preavviso” come si legge nella determina comunale. Il dirigente Alfredo Milani, condannato anni fa per una vicenda di corruzione e “perdonato” dal sindaco che allora come oggi era Leoluca Orlando, prende atto della decisione del Collegio disciplinare che nel verbale della seduta scrive che “sia pure a prescindere dalle responsabilità che saranno eventualmente accertate in sede penale, le numerose intercettazioni che coinvolgono il dipendente siano idonee a dimostrare, ai fini disciplinari, il compimento di atti gravemente lesivi dei doveri di ufficio”. Secondo il Collegio, “in particolare due intercettazioni dimostrano in maniera inequivocabile, tra l’altro, l’inserimento e la partecipazione del dipendente all’associazione criminale”. Si parla di “perizie da presentare”, “tariffe” da richiedere ai “clienti”, “pratiche da agevolare”.
Solo che il 17 maggio, su richiesta dello stesso pubblico ministero, il gip archivia l’inchiesta su Genovese perché “risultano convincenti ed esaurienti le argomentazioni di discolpa fornite dagli indagati” e perché “le affermazioni e le asserzioni trascritte dalla polizia giudiziaria dopo l’ascolto delle captazioni non possono ritenersi sintomatiche e probanti di una evidente e chiara partecipazione”.
Alla luce dell’archiviazione del procedimento penale Genovese chiede di tornare al lavoro. In primo grado, però, il giudice gli dà torto. Oggi la sentenza viene ribaltata: deve tornare in servizio. Hanno avuto ragione i legali, i quali hanno sempre sostenuto che “nessun fatto diverso da quelli penali è stato contestato a Genovese in fase disciplinare”.
Alla fine aveva ragione Genovese quando a LIvesicilia dichiarò che “è difficile, ma ho ancora fiducia nella giustizia. Non ho più soldi, e ho bisogno di lavorare”.
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16 Luglio 2013, 20:57