Inchiesta sulla vita | di Norman Zarcone

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29 Dicembre 2010, 02:00

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Questa è un’inchiesta in tre puntate sulla vita di Norman Zarcone, meglio noto come “il dottorando suicida di Lettere”, secondo una formula in cui la brevità rasenta un superficiale cinismo. Della sua morte sappiamo tutto. Nelle cronache dei giornali la vita è entrata quasi per caso e di soppiatto, come un ospite inatteso. Vorremmo provare a ricomporre l’equilibrio. Norman amava la vita. Tenteremo di capire perché un amore così ardente e chiaro sia naufragato in quel volo dal settimo piano della facoltà di Lettere, in viale delle Scienze. Abbiamo cercato di mettere insieme i dettagli sminuzzati di un’esperienza, dei giorni e dei minuti che hanno preceduto il finale. Forse basterà per narrare appena la storia di un ragazzo che è stata una sinfonia bellissima di passione per la verità e per gli esseri umani.  Abbiamo cominciato il cammino da curiosi e ignari. L’abbiamo finito con la gola stretta dal rimpianto. Dopo averlo conosciuto nelle parole degli altri, ora Norman ci manca. Dovessimo associarlo a un personaggio letterario, gli daremmo i panni e la voce innocente del Piccolo Principe, a colloquio con i suoi fiori, con il suo cuore e con le stranezze dei grandi.  L’inizio del viaggio da dove era giusto iniziarlo. Dalla casa dei Zarcone, in via Lucchesi Palli 40 B a Palermo.

Apre la porta Claudio, papà di Norman. La maschera tragica di un padre che ha perso un figlio, esplosa nei minuti successivi alla tragedia, si è solidificata in un’incancellabile espressione di penosa inquietudine. Claudio accende una sigaretta via l’altra. Beve il caffè. E’ un uomo in movimento perpetuo. Deve procedere velocemente, per non fermarsi, per evitare che il lutto che lo insegue gli venga addosso. Claudio ha solo i suoi passi svelti, per non morire subito di dolore. “Ecco, questa era la stanza mia  e di Norman”. Uno spazio del pensiero agghindato da una miriade di libri. Un pianoforte accanto al muro. Una pianola a invadere tutto. Un cappello dell’armata rossa. Scusa, Claudio, tuo figlio era per caso comunista? Il padre sorride. Si tormenta l’orecchino: “No, era un innamorato di ogni cosa. Per me era un grande filosofo di destra. Non so se lui lo sapesse. Ha letto Mishima. Ha segnato un passo in cui si distingue tra suicidio egoistico e suicidio altruistico. Ogni volta che lo rileggo mi vengono i brividi”. Di libri è foderato il letto a castello, consacrato alla meditazione più che al riposo.

I riferimenti alla politica e a Mishima non sono casuali. Si incasellano alla perfezione nella trama. Zarcone padre è un uomo di destra, per tanti anni addetto stampa di Fabio Granata, prima di una separazione che ha lasciato rancore e inimicizia. La tesi del suicidio “altruistico” apre il sipario su una questione fondamentale. Secondo la famiglia, il brusco trapasso di Norman non è stato il gesto di un giovane depresso, in preda a una deriva generazionale. Piuttosto, il sacrificio meditato di uno studente in rotta con un sistema universitario permeabile e incapace, per sua scelta, di premiare il merito. Un atto d’accusa simbolico, consumato per gridare ad altissima voce. Quasi un dono di estrema consapevolezza per gli altri Norman impantanati in trincea. Gli archivi sono pieni delle parole roventi di Claudio Zarcone sul tema. Qui basti rammentare un’intervista a “Exit”, con frasi molto dure sulle baronie che innalzano gli amici degli amici o su certe impagabili sentinelle del mondo scientifico, promosse senz’altro purché “abbiano le gambe aperte”. Una polemica destinata a lasciare strascichi.

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Si discute se intitolare un’aula della facoltà di Lettere a Norman Zarcone. Parecchi professori si sono opposti. Il filo rosso è nelle mani del rettore, Roberto Lagalla e del senato accademico. Il ministro Gelmini è favorevole e l’ha ricordato con una lettera. Claudio sussurra: “Per il momento cerco di stare buono, ma lo scenario è chiaro. Non vogliono la dedica a Norman per reazione. Ai docenti della sua facoltà non sono andate giù le mie denunce. Premiare una vittima delle baronie e dei traccheggi squallidi sarebbe come un’ammissione, se non di colpa, almeno di una certo confusione. Possono permetterselo? So che c’è stato uno scontro molto aspro in consiglio di facoltà”.

Pausa caffè. Una sigaretta spenta accende la successiva. “Mio figlio voleva attraversare il mondo con gli occhi aperti. Anzi, spalancati. Sai, aveva progettato un’inchiesta fotografica sulla mafia. Scatti e interviste. Ne abbiamo discusso pochi giorni prima della sua morte. Io avevo appena visto ‘Fortapasc’, il film su Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla camorra. Ero terrorizzato”. Sulla mensola della cucina, un popolo di pupazzetti di Lupin in miniatura. “Norman ne andava pazzo”. Con i suoi basettoni e il suo sguardo impertinente, somigliava un po’ al personaggio del ladro simpatico dei cartoni animati.
L’avremmo immaginato volentieri, Norman, su un’auto decappottabile accanto alla sua dolcissima Margot, in spiaggia, al tramonto. Invece, il 13 settembre scorso, il ragazzo che amava la vita e soffriva di vertigini si è inerpicato fino al settimo piano della facoltà di Lettere. C’era una finestra aperta. Ha voltato le spalle al cielo, per non guardare.  E si è lasciato cadere giù.
(1-Continua)

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29 Dicembre 2010, 02:00

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