03 Gennaio 2019, 11:39
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E’ una scena che nei film ricorre frequentemente. Ad un certo capita che il protagonista si ritrova per strada a vagare con l’aria assorta, cupa. Oppure si siede al tavolo di un bar ed ordina un bourbon, o qualcosa del genere. E’ solo, preso dal suo personale dramma e nessuno se lo fila. Però gli è vicina la platea degli spettatori, soffre con lui, sa bene ciò che sta vivendo.
Chissà perché, ma è a questo che pensavo l’altra sera, per strada. Pomeriggio inoltrato. Era l’ultimo dell’anno. Camminavo senza una direzione stando ben attento a non urtare o a non essere travolto dai passanti frettolosi alle prese con gli ultimi preparativi del veglione. Poi però mi sono visto in una vetrina. Avevo pure un filo di barba, le mani in tasca, la sigaretta che mi pendeva tra le labbra ed ero avvolto nel mio loden verde, demodè, ma vagamente romantico.
Per un attimo ho immaginato che ci fosse tanta gente ad osservarmi, come in un Truman Show. Spettatori che stavano vivendo, scena dopo scena, quegli strazianti momenti, fatti di lunghe giornate, in cui vedevo il mio cane spegnersi poco alla volta, consumarsi come una candela. Notti insonni ad imboccarlo, a dargli da bere, a scrutare i suoi occhi che sembrano sempre dirti qualcosa, ma non sai mai se è quella giusta. Ma non era un copione, e non c’era nessuno seduto in poltrona a guardarlo, quel film. Ero davvero solo, con un tormento che si può solo bisbigliare, sussurrare, confessare a qualche amico.
Non puoi gridarlo al mondo intero come vorresti, provi un qualcosa che somiglia molto alla vergogna, al pudore. “Dio Santo, è soltanto un cane”. E’ questa la paura che ti blocca. Di sentirtelo dire, o supporre che venga solo pensato. Non apri mai il tema. Semmai lo fa qualche amico che ti conosce, ma tu minimizzi, svicoli, bluffi. Confessi, sei costretto a farlo, che siamo ai titoli di coda, ma te ne esci con frasi come “pazienza, è la vita”, “che vogliamo farci”. Però devi andare alla velocità della luce. Se solo indugi, anche solo per un attimo, la voce ti si strozza, e le lacrime, -‘ste stronze– non rispondono ai comandi.
La tocchi piano, insomma, almeno con gli altri. Il bruciore c’è, ma è altrove. Fa male, molto male. Sono giorni, settimane, che la tocco piano. Nel mio rione non sono abituati a vedermi senza il mio cane. Da quasi 14 anni sembriamo una coppia. Tutti, quando mi vedono, mi chiedono di lui. “Per ora è un tantino ammaccatello, …è a casa”, così rispondo. “Ammaccatello”. Più piano di così non posso toccarla. Ma lo conoscono tutti, sanno bene che è vecchietto e fanno commenti tenerissimi. E non per sventare il mio bluff, è che proprio gli vogliono bene.
Oggi, per esempio, un tale che prima si occupava della manutenzione di Villa Tricoli, mi ha detto: “Mi ricordo ancora di quando mi futtiu il pennello mentre dipingevo l’inferriata e lo assicutammo per tutta la villa”.
Quasi ogni giorno è così, anche se cerco di evitare tutti i posti che frequentavo durante le passeggiate e che mi parlano di lui. Vi ricordate la canzone di Lucio Battisti, “Prendila così”? Qualcosa di simile. Io sorrido ai commenti delle persone che conoscono il mio cane. Sono snocciolati al passato anche se lui è ancora qui , “ammaccatello”, ma c’è. Ma va bene così. Credo che sia inevitabile. In fondo è solo una questione di anticipo mal regolato.
Anche questo mio pezzo, a pensarci, pare un’epigrafe. Pure Lapo Elkann c’è caduto. Ricordate, con Sergio Marchionne? Lui era ancora vivo, ma quella lettera di John Elkann sembrò quasi un’orazione funebre . Scrissi pure un pezzo per Live. Il titolo era “Sergio Marchionne, l’uomo che morì due volte”. Curioso accostamento. Blasfemo forse. Io, come John Elkann, e Pippo, il mio cane, come Sergio Marchionne. Ma che mi salta in mente? Se ci penso, mi viene pure da ridere.
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03 Gennaio 2019, 11:39