19 Novembre 2013, 20:54
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E’ bello arrivare in reparto al mattino presto. Ancora il piacevole e stuzzicante odore del caffè di quelli del turno di notte. Il pavimento fresco dalla recente pulizia. C’è un’aria pulita, tersa. Le finestre aperte fanne entrare una fresca brezza mattutina insieme allo stuzzicante odore della brina dei vicini alberi. C’è una luce limpida ed il colore azzurro chiaro dei copriletto risalta sulle teste scure dei pazienti che ancora sonnecchiano. Accanto a loro le luccicanti flebo fanno da riverbero ai raggi del sole che si insinua. Piano piano mi accosto al primo letto, scopro le lenzuola che liberano il piacevole tepore raccolto sotto il lenzuolo. Drenaggi ok, parametri vitali a posto, riposa, va tutto bene. Ripenso all’intervento eseguito la mattina prima e trovo il riscontro che desideravo e che mi aspettavo.
Accanto a lui una sedia imbottita ed un volto corrugato si riprende dal torpore e mi sorride. “dutturi meu, stanotti finalmente arripusò, u Signuri l’havi a benediciri!” Il suo volto piegato dal sacrificio di una notte insonne, le mani magre e rugose, un corpo esile rivestito da un abito semplice e scuro. Lo sguardo mesto ma ripreso dalla bella notizia, le mani che cercavano di mettere in ordine la dignità di essere semplici, la compostezza di chi conosce i limiti dell’essere umano, l’affannata ricerca sul mio volto di un segnale, anche minimo, di rassicurazione. Hanno fatto un lungo viaggio per arrivare al mio ospedale. Gli hanno detto che lì c’è un reparto che funziona con un dottore che è bravo. Si sono aggrappati a quel lungo viaggio per cercare la vita e la consolazione delle loro sofferenze.
Suo marito, il suo compagno di una vita, il padre dei suoi figli, stava meglio. Aveva superato il delicato intervento chirurgico che avevo eseguito la mattina precedente. Avevano vinto insieme una immane battaglia contro la morte. Poche parole ma un grande sorriso ed un tono rassicurante. Questo è quello che le devo, questo è il messaggio che posso darle a poche ore. Mi risuonano in mente, allontanandomi, le sue parole: u Signuri l’havi a benediciri”. Questo è il miglior onorario che il mio lavoro può darmi.
Ma , ripensando, u Signuri havi a benediciri non a me, è il mio mestiere, la mia vocazione, la mia passione. Havi a benediciri chi dovrebbe, con dubbio successo, regolare, organizzare, spianare la nostra vita. La vita di chi soffre e che è costretto a lunghe attese ma anche di chi muove, attraverso le proprie mani e la propria esperienza, il destino di tante persone. U Signuri havi a benediciri il nostro Presidente, il Nostro Assessore, il nostro Commissario straordinario, i nostri amministrativi, perché doni loro la consapevolezza che la sanità è fatta si di carte, regole, leggi, decreti e finanziamenti ma anche e soprattutto, di tutti quei volti umili ed impauriti che cercano speranza e sollievo, di chi aspetta una risposta di salute e di benessere, di chi deluso continua a fare il proprio dovere.
U Signuri havi a benediciri chi si affanna ancora a discutere animatamente sull’Humanitas, sul colloquio dei Direttori Generali, sullo spostamento di quello o di quell’altro dirigente e chi dovrebbe decidere con obiettività e serietà chi dovrà tendere i fili. U Signuri havi a benediciri tutti coloro che pensano che la sanità è potere e privilegio dimenticando che forse un giorno, chissà, dovranno renderne conto alla propria coscienza.
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19 Novembre 2013, 20:54