23 Novembre 2010, 07:24
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La creatura che portavo in grembo se n’è andata per sempre. Di questo dovremo farcene una ragione io e il mio compagno. Soltanto noi.
Una gravidanza che si interrompe all’ottava settimana. Io con i miei trent’anni, un buon quadro clinico e un esito infausto che, però, calza a pennello l’abito delle statistiche. Su cento giovani donne gravide, trenta abortiscono, mi consolano i medici.
Tutto, più o meno, nella norma. Non fosse, però, che nella mia storia si intrecciano speranze, dolori, medici imbonitori e una punta di mala sanità.
Responsabilmente scelgo di rimanere incinta. Pianifico la mia gravidanza non prima di un check up ginecologico. Mi affido a un professionista agrigentino, che presta servizio in una struttura palermitana.
Faccio la prima visita e lui mi diagnostica un “utero setto”. In soldoni, dentro il mio utero c’è una parete, forse callosa, che divide la cavità in due metà.
Subito domando: “posso serenamente tentare di avere un figlio?”.
Lui mi rassicura: “assolutamente sì, nessun problema”.
Insisto: “è necessario, prima, intervenire in qualche modo?”.
Lui dice di no e inizia a sciorinami una casistica di miracoli ginecologici, di donne con due vagine felicemente madri, al cui confronto il mio utero setto è una passeggiata di piacere.
Resto subito incinta: io e il mio compagno siamo felici e per nulla in apprensione. Viviamo un paio di settimane splendide, tra progetti e punte di entusiasmo, fino all’inizio del calvario.
Ho delle perdite, vistose e mal di pancia. Il noto specialista mi dice di andare subito a Palermo. Da Agrigento facciamo una corsa, lo raggiungiamo nel suo studio privato e, prima della visita – io piena di sangue – faccio una buona mezzora di anticamera.
Mi fa un’ecografia transvaginale, ha la faccia scettica. Mi prescrive un bombardamento di progesterone per intramuscolo, e mi rimanda alla settimana successiva, nel suo studio.
Faccio un ciclo di nove punture, che mi causano una collezione di effetti collaterali, che ora voglio solo dimenticare. Resto a riposo assoluto, in attesa del fatidico controllo.
Arriva il grande giorno, lui mi rifà l’ecografia e spara il verdetto: non c’è attività cardiaca, ma per sicurezza ci rivediamo tra qualche giorno a Palermo.
Mi congeda, invitandomi a richiamarlo il lunedì successivo per fissare l’appuntamento.
Nel dolore di quei momenti, io e il mio compagno troviamo, però, la lucidità di capire che forse c’è qualcosa che non va.
Ci rivolgiamo a un’altra struttura pubblica palermitana. Passano pochi giorni e mi fanno tutti i controlli del caso. Aborto interno da almeno tre settimane.
E’ questa la sentenza, pronunciata, però, non prima che i medici – stavolta con tutte le cautele e la delicatezza del caso – mi esponessero un’altra questione.
“Signora, ma lei sapeva di avere un utero setto? Si è mai controllata? In casi come questi, prima di programmare una gravidanza, occorre fare un piccolo intervento di isteroscopia, nulla di complicato”.
Rimango di ghiaccio e ripenso al primo controllo dal medico, alle sue rassicurazioni, al suo avermi garantito che avrei potuto avere tutti i figli che desideravo.
I medici mi tranquillizzano e mi spiegano che, nelle mie condizioni, sono stata, tuttavia, fortunata. Avrei corso il rischio – se la gravidanza fosse andata avanti – di avere un aborto al quinto/sesto mese di gestazione, con tutte le conseguenze catastrofiche che ne sarebbero potute conseguire. Gravi emorragie per me e per il bambino – qualora fosse sopravvissuto – minorazioni irreparabili. Mi dicono anche che tutto quel progesterone, con un embrione visibilmente senza battito di cuore, ha solo peggiorato la mia situazione.
Subisco il dolore -psicologico e fisico – dell’interruzione di una gravidanza. Oggi, con lucidità, ma non senza dolore, ripenso a un mese intero passato a letto, ad assumere farmaci, che invece di curarmi mi hanno devastata. In sole tre settimane, quattro ecografie, tutte regolarmente pagate fior di quattrini.
Mi domando, se solo quel medico mi avesse fatta operare, forse io non avrei subito tutto questo.
Scopro, poi, che nella struttura dove lavora lo specialista in questione, non fanno quel tipo di intervento correttivo.
Non so cosa pensare e forse, adesso, non voglio più pensarci. Vorrei però che non capitasse ad altre quanto è successo a me.
Lettera firmata
Pubblicato il
23 Novembre 2010, 07:24