05 Gennaio 2016, 06:15
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PALERMO – Chi è veramente Khadiga Shabbi, la quarantacinquenne ricercatrice universitaria indagata per istigazione a commettere reati con finalità di terrorismo. La risposta passa anche dall’analisi di telefoni e computer che sono stati sequestrati a quattro suoi amici.
Si tratta di un vicino di casa tunisino, di un marocchino e di due libici. Sono tutti trentenni e almeno uno di loro gravita negli stessi ambienti universitari di Khadiga e cioè la facoltà di Economia e Commercio dell’ateneo palermitano. Tra di loro ci sono stati dei contatti – telefonici e telematici – su cui i pubblici ministeri Calogero Ferrara ed Emanuele Ravaglioli vogliono vederci chiaro. Nonostante i sequestri nessuno dei quattro è indagato.
L’ipotesi alla quale i poliziotti della Digos devono trovare conferme o smentite è che tutti possano avere contribuito alla rete di propaganda di posizioni integraliste vicine ad Al Qaeda. Rete di cui la donna libica sarebbe il perno. Il condizionale è più che mai d’obbligo visto che il giudice per le indagini preliminari nei giorni scorsi non ha convalidato il fermo della Shabbi a cui è stato applicato il solo obbligo di non allontanarsi dalla città e, durante la notte, dalla casa nel rione Albergheria dove vive grazie ad una borsa di studi pagata dall’ambasciata libica a Roma.
La Procura di Palermo ha presentato appello e il Tribunale del Riesame affronterà il caso il prossimo 15 gennaio. Nell’impugnazione si sottolinea la contraddittorietà della misura sotto il profilo della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e l’inadeguatezza dell’obbligo di dimora che, per la Procura, non impedirebbe all’indagata di comunicare e di utilizzare i social che sarebbero stati mezzo per la diffusione della propaganda terroristica. Gli investigatori hanno accertato che Khadiga Shabbi, monitorata per mesi dopo alcune segnalazioni, aveva avuto contatti con due foreign fighters, uno in Belgio, l’altro in Inghilterra. A proposito, le autorità belghe hanno detto no allo scambio di generalità con la polizia italiana e chiedono che il passaggio di informazioni passi da una rogatoria internazionale. La donna libica avrebbe anche cercato di pianificare l’arrivo in Italia di un suo cugino, poi morto in Libia in uno scontro a fuoco e avrebbe mandato diverse somme di denaro in Turchia.
Tutte accuse respinte con forza dalla donna il giorno in cui è stata rilasciata dal carcere Pagliarelli. E adesso si scava nei suoi rapporti personali. Si parte dalle amicizie per scandagliare probabilmente quello che costituisce, come lo ha definito lo stesso giudice che l’ha rimandata a casa, il suo “pieno inserimento nel tessuto civile in virtù del suo impegno universitario”.
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05 Gennaio 2016, 06:15