Quello ‘sbirro’ urlato a Riina jr | La vita “spericolata” di Di Giacomo

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02 Maggio 2014, 06:24

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PALERMO – Glaciale e spietato. Sia fuori che dentro il carcere. Pronto a massacrare di botte un altro detenuto e a dare dello “sbirro” al figlio di Totò Riina.

Sono le sue stesse parole, le parole di Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano, ad aprire alcune piste investigative sull’omicidio del fratello Giuseppe, freddato alla Zisa. Parlando con un nipote e con l’altro fratello, Marcello, Giovanni non escludeva che il delitto fosse una vendetta nei suoi confronti. I colloqui sono stati registrati fra marzo e aprile scorsi, prima che Giovanni Di Giacomo individuasse in Onofrio ed Emanuele Lipari i presunti mandanti dell’omicidio e, così sostiene l’accusa, ne ordinasse l’eliminazione, “costringendo” i carabinieri ad accelerare il blitz a Porta Nuova.

Il nipote piangeva durante il colloqui. Si commuoveva pensando a Giuseppe che “… era tutto sparato… la costola… forse non ce l’ha fatta più ed è caduto e l’ultimo gli hanno sparato in testa…”. “… una volta che avevano questa intenzione c’è poco da fare”, spiegava Giovanni Di Giacomo con apparente freddezza. Poi, aggiungeva: “… può essere pure che è stato fatto per me”. “… sto pensando ora il fatto di Padova magari c’entra niente?”, gli chiedeva il nipote. Risposta: “… bravo… bravo… mettilo al dieci per cento però mettilo al dieci per cento… sei intelligente, ma lo hai pensato tu lo hai pensato?… il dieci per cento perché questo che dici tu non ha tutta questa capacità di potere… hai capito?”.

Il “fatto di Padova” è un episodio di inaudita violenza carceraria. L’11 luglio 2011, all’interno del penitenziario Due Torri della città veneta Di Giacomo massacrò a colpi di fornellino da campo un altro detenuto, Francesco Bruno. Che non è l’ultimo arrivato. Sta scontando pure lui un ergastolo per l’omicidio di Stefano Gallina, capomafia di Cinisi freddato negli anni Ottanta. Bruno, nato ad Isola delle Femmine, era uomo di fiducia di Saro Riccobono, storico boss di Partanna Mondello. Ha condiviso il ruolo di imputato in un processo con Salvatore Lo Piccolo colui che, vent’anni dopo, avrebbe preso il potere fra Resuttana e San Lorenzo.

Una mattina afosa del luglio 2011, le celle del carcere di Padova sono aperte per fare “respirare” i detenuti. Bruno si trova nel reparto Eiv (elevato indice di vigilanza). Un attimo di distrazione delle guardie carcerarie e nella sua cella piomba Di Giacomo. Al termine del pestaggio, Bruno riporta diverse fratture alle gambe e alle braccia. Il suo volto è tumefatto. La testa fracassata. Ci vorranno diversi interventi chirurgici e 500 punti di sutura per strapparlo alla morte e cucire le ferite. Oggi si trova nel carcere di Milano-Opera, dove ha assistito al processo nel corso del quale, nel 2013, è stato condannato a 30 anni per l’omicidio di Vincenzo Enea, un imprenditore edile di Isola delle Femmine assassinato, secondo l’accusa, per essersi rifiutato di entrare in società con alcuni mafiosi, tra cui Bruno.

Giovanni Di Giacomo stava per commettere, dunque, il terzo omicidio della sua vita dopo quelli di Natale Tagliavia, trovato incaprettato il 18 settembre ’81 e di Filippo Ficarra, vittima della lupara bianca nel 1982. Sempre in carcere, su ordine di Totò Riina, Pippo Calò e Michele Greco, aveva cercato di di avvelenare Gerlando Alberti “u paccarè”, lo storico capo della famiglia di Porta Nuova. Di Giacomo eseguiva ordini e non guardava in faccia nessuno. È uno che non le manda a dire. Non si è fermato neppure di fronte al figlio del capo dei capi. È accaduto anche questo.

Ancora una volta è lo stesso Giovanni Di Giacomo a raccontarlo. Al fratello Marcello, che l’11 aprile scorso era andato a trovarlo in carcere, ammetteva di avere avuto tanti, troppi “discorsi in galera … discorsi che ho avuto in galera… discorsi… hai capito?… per esempio… ho avuto discorsi pure con il figlio di Totò Riina… gli ho detto… ‘sei sbirro’… ‘sei cane’”. Giuseppe Riina è stato rinchiuso a Padova nello stesso carcere di Giovanni Di Giacomo.

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02 Maggio 2014, 06:24

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